venerdì 14 agosto 2009

(Post n. 30) Gli “antennati” 1 : HF


Le antenne HF, ovvero il sogno di tutti gli OM e l’incubo dei loro vicini di casa. Non c’è verso di salvarsi dalle grandi dimensioni delle antenne per le alte frequenze: se l’onda radioelettrica ha una certa lunghezza è inevitabile che l’antenna adatta a ricetrasmetterla debba avere, per funzionare al meglio, una lunghezza ad essa proporzionale entro certi limiti minimi. Che questi siano, secondo l’opinione comune dei non addetti ai lavori, un po’ troppo abbondanti per un’antenna, è ormai diventato un tormentone sociale che spesso causa dispute meschine e ridicole le quali, per ragioni di legge, si concludono sempre ed inesorabilmente, in sede giudiziale, allo stesso modo, proprio perché, se la legge permette l’installazione, l’installazione a norma di legge prevale, socialmente, sulla paturnia cha produce ogni illegale opposizione, sia quest’ultima più o meno massiccia.
Le HF fanno anche sudare agli OM sette camice per quanto riguarda la loro installazione, la quale è un vero e proprio impegno di capitale e di fatica.
Ora è venuto il momento di raccontare il mio travaglio interiore in merito a tale argomento.
Se si opta per le economiche antenne filari (siano esse windom o dipoli filari od altro) oppure verticali, non si ha direttività, e quindi si capta un sacco di rumore di fondo in ricezione, non si riesce ad avere sempre un’elevata propagazione d’onda in trasmissione e si necessita di una grande abbondanza di spazio lineare sui tetti oppure di superficie al suolo.
In mancanza di spazio e di altezza opportuni, si possono utilizzare antenne loop (dei veri e propri anelli di dimensioni che non superano qualche metro di diametro
http://www.ciromazzoni.com/Loop%20Antenna.htm ). Queste antenne inusuali e poco vistose, originariamente utilizzate piuttosto massicciamente in ambito militare, funzionano indubbiamente bene in disagiate situazioni di posizionamento e di spazio, ma hanno bisogno, secondo alcuni, di circuiti molto sensibili in ricezione e molto potenti in trasmissione, il che costa tantissimo, sul mercato delle integrazioni circuitali dei ricetrasmettitori di elevata qualità: si sa che i militari non hanno, per definizione, problemi di spesa, un civile privato, invece, solitamente sì.
Se si finisce, quindi, per pensare di installare delle antenne direttive molto performanti, ci si trova, in sostanza, secondo me, di fronte a due opzioni di massima: antenne yagi od antenne cubical quad.
Bisogna subito mettersi l’anima in pace: se non si abita sul grattacielo più alto della città e se non si ha a disposizione il suo terrazzo-tetto di sommità, l’opportuna elevazione di un’antenna yagi per HF costituisce già un bel problema in quanto essa, per essere pienamente operativa, non può stare a meno di complessivi 21 m dal suolo e quindi va per forza collocata a detta altezza sopra un palo od in cima ad un traliccio. Entrambi questi sostegni sono tanto più esponenzialmente costosi quanto più sono alti. Se poi essi fossero autoportanti, i loro prezzi potrebbero diventare da capogiro, per un portafoglio comune; e se addirittura partissero dal suolo, anziché dal tetto, necessiterebbero, in aggiunta, di un progetto da sottoporre a concessione edilizia comunale.
Le antenne yagi sono costituite da una serie di steli orizzontali, paralleli tra loro, sostenuti, a metà della propria lunghezza, da un unico supporto ad essi ortogonale. Per evitare al radioamatore che comunichi su più bande di frequenza l’onere di acquistare tante economiche antenne yagi da piazzare su molti costosi sostegni, disseminati in un ampia area, i produttori di queste antenne hanno creato delle yagi multibanda che, in quanto tali, sono piene zeppe di steli. Ovvio che queste antenne, avendo più corpi di metallo delle loro sorelle monobanda, pesino ben più di queste ultime e quindi debbano essere collocate su sostegni decisamente più robusti. Inoltre gli steli, nel centro delle antenne multibanda, sono così vicini gli uni agli altri, che l’antenna stessa, per essere occasionalmente sottoposta a manutenzione, non può essere montata su tralicci dotati di carrelli ascensore (in quanto gli steli finirebbero, scendendo col carrello a fianco del traliccio, per cozzare rovinosamente contro quest’ultimo) ma soltanto o su tralicci telescopici (cioè autoestensibili), o su tralicci fissi (dai quali, all’occorrenza, far scendere e risalire l’antenna con l’aiuto di un camion dotato di un braccio gru!) o su pali ribaltabili su fianco (i quali necessitano, a tal fine, di poderosi sistemi ad argano).
Gli astuti inventori di una ditta americana produttrice di antenne radioamatoriali di qualità piuttosto elevata (la Steppir
http://www.steppir.com/files/Yagi%20brochure.pdf), per far risparmiare ai radioamatori gli altissimi costi dei sostegni a grosso palo od a traliccio, hanno avuto la brillante idea di costruire delle yagi con steli in tubo di carbonio, dal centro dei quali ed entro i quali far scorrere, mediante motorini elettrici passo-passo, pilotati a distanza da una centralina, i veri steli di metallo dell’antenna, ridotti a sottili strisce traforate, le quali possono essere simmetricamente sbobinate e riavvolte a piacere fino a raggiungere, caso per caso, le distanze esatte alla ricetrasmissione su ogni consentita banda di frequenza. Ciò, non soltanto ha consistentemente alleggerito l’antenna, ma ha anche permesso di ridurne il numero degli steli così da produrre, al centro di essa, un ampio spazio vuoto che ne permette l’elevazione anche con carrelli elevatori di fianco-traliccio. L'equivalente italiana di questa impresa è la Ultrabeam (http://www.ultrabeam.it/).
Manco a dirlo, ovviamente anche queste particolari antenne sono abbastanza costose, sebbene molto meno di un traliccio adatto alle loro equivalenti a steli fissi. Quindi, con un tetto ad almeno dodici metri di altezza dal suolo ed uno spezzone di traliccetto di nove metri, il gioco sarebbe fatto!
Vi sono tuttavia case costruttrici, come la tedesca Titanex, che hanno mirato a sistemi d’antenna misti dal prezzo basso rispetto alla notevolissima resa che, secondo me, se ne trae: antenne cubical quad multibanda a due elementi più un dipolo filare per le bande dai 40 ai 160 m lambda.
(http://www.titanex.de/frames/quads.html)
Naturalmente anche in questo caso non si può avere tutto: la cubical quad è un’antenna molto economica, agevolmente carrellabile in altezza, ed a mio parere ottima nelle ricetrasmissioni su lunghissime distanze, oltre che dotata di una sensibilità ricettiva straordinaria; poi, già a 16-18 m dal suolo, la sua resa è perfetta; però, essa ha un’immensa superficie di esposizione al vento e quindi può andar soggetta a tremendi e talvolta parzialmente distruttivi effetti vela. Oggi, la struttura meccanica di quest’antenna è stata migliorata e rafforzata con sistemi a molla di ammortizzazione della tensione esercitata dal vento sui suoi cavi disposti a tessitura di ragnatela, ma la sua resistenza al vento resta comunque molto elevata, per cui la spesa, che si riduce sul versante dell’altezza del sostegno e sul valore dei materiali, aumenta per converso sostanziosamente dal punto di vista della robustezza strutturale di tale sostegno e del sistema di frenata ammortizzata del rotore, il quale deve quindi essere di elevatissime qualità e robustezza.
Insomma, calcolatrice alla mano, i conti sono lunghi e complicati: sostegni, altezza, struttura, spazi, meteorologia del luogo di installazione, durevolezza dell’investimento, manutenzione, modalità e luogo di acquisto, capire cosa sia veramente conveniente, mantenendo un elevato rapporto qualità prezzo, è un vero tormento!
Alla fine, comunque, mi sono convinto che la soluzione più accettabile, nel caso non si voglia ricorrere ad una abbastanza soddisfacente ma inflazionatissima cushcraft a steli corti e dotati di “strani” cappelli capacitivi alle estremità, sia installare una yagi tipo steppir. Spero di non essermi sbagliato: ai colleghi OM più esperti l’ardua valutazione finale.
[Nella foto l’antenna cubical quad di un collega OM].

domenica 12 luglio 2009

(Post n. 29) Ruota libera (motoaccensioni 2)


Nel Post n. 27 si è accennato al problema della ruota libera. Quest’ultima nacque, in origine, come dispositivo meccanico che permetteva di disaccoppiare il gruppo pignoni dal mozzo della ruota motrice di una bicicletta, al fine di dare al ciclista la possibilità di smettere di pedalare in qualsiasi momento senza che, con ciò, si arrestasse immediatamente il moto della bicicletta (v. http://it.wikipedia.org/wiki/Ruota_libera ).
In una moto vi sono due ruote libere: una, come nelle biciclette, è in corrispondenza del mozzo della ruota posteriore, l’altra, invece, si trova in quella parte del motore che sta nelle immediate vicinanze del pedale (o del motorino) di avviamento. E’ appunto a questa seconda ruota che si riferiva il Post n. 27 trattando delle possibili cause di una difficoltosa o mancata accensione del motore.
La ruota libera, fatta girare dal motorino di avviamento, fa presa sull’albero motore mediante una frizione a cilindretti, soltanto per quella frazione di secondo necessaria a produrre l’accensione, dopodiché, iniziando a girare vorticosamente, tale albero si svincola da essa.
Avveuto un cospicuo numero di accensioni (soprattutto se malfatte), l’ingranaggio della ruota libera, come si dice in gergo, potrebbe “sgranarsi”. Sintomi? Pigiando il pulsante “Start” si sente un rumore di ferraglia che somiglia vagamente a quello di un macinacaffè o di una marcia male ingranata ed il motore tenderebbe sempre più frequentemente a non accendersi. Tuttavia la moto si accenderebbe perfettamente a spinta (cioè ingranando la prima dopo averle fatto raggiungere una certa velocità, magari in una discesa) e questo fatto sarebbe quindi la prova definitiva che il problema di accensione sarebbe da imputare esclusivamente allo “sgranamento” della ruota libera. Ma in che cosa consiste tale fenomeno?
Sostanzialmente nella grave abrasione di cilindretti di metallo che fanno da cuscinetti e da “ingranatori” della ruota libera sull’albero motore entro la frizione della stessa. Ad ogni accensione questi cilindretti subiscono un fulmineo shock rotativo che diventa anche abrasivo nel caso in cui non fossero abbondantemente lubrificati e l’accensione del motore non venisse effettuata correttamente.
Nelle foto riportate al link
http://www.aea.it/tecnodisplay/friends/friends_bikers.htm , “ruota libera”, potete vedere in quale penoso stato questi cilindretti si siano ridotti nella Dragstar 1100 di un mio amico di club (v. anche la descrizione dettagliata della vicenda) e come egli, oltre a farli sostituire con cilindretti nuovi di fucina, abbia anche provveduto a far fare un buco del diametro di 3 mm sul bordo della ruota sulla quale essi scorrono, ed uno di 6 o 7 mm di diametro sull’albero motore, per permettere all’olio motore di fluire più copiosamente su di essi, proprio al fine di evitare l’insorgere del medesimo problema ad un tot di accensioni effettuate dopo tale sostituzione.
Se il problema dello sgranamento dei cilindretti della ruota libera non si fosse ancora manifestato si potrebbero, con modica spesa, effettuare, a livello di prevenzione, i suesposti interventi di perforazione.
Io, naturalmente, non garantisco alcunché in merito a tale “rimedio”, in quanto non lo ho personalmente sperimentato e non vi sono ancora statistiche attendibili per confermarne la piena validità, nonostante l'evidente sensatezza.
Purtroppo, il meccanismo di ruota libera della Virago è ben diverso dall’analogo meccanismo presente sulla Dragstar ( v. il post al link:
http://images.google.it/imgres?imgurl=http://img22.imageshack.us/img22/6102/forze.jpg&imgrefurl=http://www.custommania.com/viewtopic.php%3Fid%3D22674&usg=__cN7SiJnS5H_qijFKHkYUvoqnrz8=&h=480&w=640&sz=59&hl=it&start=1&um=1&tbnid=dhYwcIE3HvDYoM:&tbnh=103&tbnw=137&prev=/images%3Fq%3Druota%2Blibera%2Bvirago%26hl%3Dit%26rlz%3D1T4ADBF_itIT241IT241%26sa%3DN%26um%3D1 ), per cui, se si volesse ottenere un più copioso flusso di lubrificante dalla camera motore, si dovrebbe studiare attentamente o dove forare o se allargare i fori adduttivi di olio già presenti senza provocare pericolosi indebolimenti strutturali. Quindi, per sciogliere questi dubbi mi rimetto ai commenti di chi è più esperto di me.
La comparsa dei sintomi di questo quasi ineffabile difetto è solitamente piuttosto erratica, ma sulla Dragstar 1100 di cui ho parlato sopra, si è verificato a 38.000 km. Tuttavia non si esclude che, a prescindere dal chilometraggio complessivamente percorso dal veicolo, essa possa aversi anche prima, nel caso in cui la moto venisse utilizzata molto di frequente. Per avere una statistica affidabile di tale difetto, bisognerebbe dunque contare il numero di utilizzi del pulsante “start” e la loro durata fino alla prima comparsa dei sintomi in parola. Un’operazione oggettivamente impraticabile, in mancanza di un apposito contatore elettronico di tale evento.
Ad un motociclista veramente attento all’efficienza del proprio mezzo non resterebbe, quindi, che raccogliere informazioni circa gli aggiornamenti migliorativi effettuati nel tempo dalla casa costruttrice sulla ruota libera del proprio modello di moto, e, se occorresse, agire prima possibile al fine di evitare l’insorgenza del problema, anche perché far praticare un foro e fare allargare di qualche millimetro il diametro di un buco già esistente per aumentare la lubrificazione nella camera della ruota libera, è certamente un’operazione assai meno costosa di quella che si sostanzia nella sostituzione di componenti usurati con componenti nuovi. Non si sta parlando di pezzi “pregiati”: per quanto riguarda le Virago, per esempio, ci sono grossisti (soprattutto inglesi) che via internet evadono ordinativi di componenti per ruota libera a prezzi davvero molto bassi. Più che altro il problema economico è dato, come al solito, dal prezzo della manodopera.
La ruota libera delle Virago, come si vede dalle foto del terzo link citato in questo post, comprende una ruota dentata che, purtroppo, non fa da paratia contenitiva del lubrificante, ed una frizione a tre cilindretti, dotata di una copertura che potrebbe andare incontro a slittamenti e deformazioni da surriscaldamento provocando danni.
La mia Virago XV 1100 non è molto lontana dai 38.000 km, è stata immatricolata nel 1999, ma è un modello del 1994: anche i miei amici di club motociclistico non saprebbero esattamente dirmi se i diametri dei punti di passaggio dell’olio motore entro la camera della ruota libera di questo sotto-modello siano già stati ottimizzati dalla casa produttrice al fine di evitare il problema di cui si parla, perciò, attualmente, sto ancora cercando dati utili. Magari, tra 400 km, prenderò coraggio a due mani ed aprirò la copertura laterale sinistra del motore per vedere come è messo questo dispositivo e, comunque, provvedere di conseguenza.
Ovviamente attendo commenti e consigli dai più esperti per migliorare questo post anche da subito.
[All’inizio del post una foto del motorino di avviamento della mia Virago XV 1100, proprio dietro la discesa del tubo di scappamento del cilindro di testa].

(Post n. 28) Telegrafia transmodale ed elettronica



La telegrafia è, notoriamente, una trasposizione, in codice morse, della scrittura di una lingua naturale umana. Ciò vuol dire che, in ambito telegrafico, si potrebbe paragonare un tasto manuale (v. Post n. 2) ad una macchina da scrivere meccanica, un tasto semiautomatico (v. Post. n. 20 ) ad una macchina da scrivere elettrica, ed un tasto automatico (v. Post n. 22) ad un personal computer su cui venga utilizzato un software di videoscrittura. Tuttavia, nel campo dell’elettronica è stato fatto un ulteriore balzo in avanti: sono stati creati dispositivi e programmi i quali sono in grado di “portare” la telegrafia a ricetrasmissioni che non le sono proprie ed a modalità operative apparentemente molto simili a quelle del modo RTTY (: telescrivente).
Come si sa, infatti, il CW è un “modo” di ricetrasmissione ben definito ed ha le proprie bande di frequenza preferenziali prevalentemente nelle onde elettromagnetiche che vanno dai 20 ai 40 m lambda, ma, a voler essere precisi, secondo il Piano Nazionale Ripartizione Frequenze (
http://www.associazioneradioamatoritaliani.it/images/stories/filespdf/Band-PlanOltre30MHz.pdf), lo si può trovare un po’ ovunque, nelle varie bande di frequenza riservate ai radioamatori.
Il fondamentale problema dell’attuale morse radioamatoriale, però, è legato alla più o meno agevole trasportabilità della strumentazione la quale si fa piuttosto ingombrante volendo mantenere ad alti valori i rapporti efficienza/dimensione delle antenne ed efficienza/peso dei ricetrasmettitori. Ecco perché qualcuno, alla MFJ, ben sapendo quanto più pratiche e trasportabili siano le antenne di ridotte dimensioni installate sulle radio palmari che, però, hanno il modo CW soltanto in ascolto, ha messo a punto un particolare dispositivo (
http://www.mfjenterprises.com/pictures/MFJ-552.jpg) che rende questi maneggevolissimi e piccoli apparati in grado di ricetrasmettere “transmodalmente”, con grande chiarezza gli impulsi morse nelle bande di frequenza VHF ed UHF (http://www.mfjenterprises.com/man/pdf/MFJ-552.pdf), ... in fonia, appunto.
Questo strano modo di trasmissione radio del codice morse, anche se per alcuni “orridamente improprio”, mi risulta piuttosto curioso e da studiare insieme ad altri colleghi OM che siano interessati alla massima portabilità degli RTX operanti con tale sistema.
Ma il tentativo di massimo contenimento delle dimensioni di apparati ed antenne per la pratica del morse non finisce qui: altri hanno avuto idee e produzioni interessanti. EI9JQ, per esempio, ha realizzato un trasmettitore CW-sat per i 2 m (
http://www.dxzone.com/cgi-bin/dir/jump2.cgi?ID=12571) e così anche la Kanga US ha realizzato qualcosa di interessante (http://www.kangaus.com/Documentation%20files/2%20m%20CW%20Source%20Documentation.pdf). Infine è da ricordare che la YAESU ha fatto davvero moltissimo, sempre in tal senso, producendo l'ultracompatto e spalleggiabile ricetrasmettitore FT-817, ormai divenuto assai famoso ( http://www.yaesu.it/index.aspx?m=53&did=116 ).
Per quanto riguarda invece i software di ausilio alle comunicazioni radioelettriche in codice morse, va ricordato che esistono programmi, come CWget (
http://www.dxsoft.com/micwget.htm ), in grado di decodificare gli impulsi morse nei corrispondenti simboli alfanumerici, riportando questi ultimi a monitor come se si trattasse di un sistema di comunicazione a telescriventi, e programmi come CWwrite (http://www.dxsoft.com/en/products/cwtype/ ) che servono a trasmettere in codice morse direttamente da una tastiera o da un paddle connessi alla porta LPT di un personal computer. Vi è persino, con Winkeyer Remote Control, la possibilità di pilotare a distanza un RTX con un Winkeyer locale ( http://k1el.tripod.com/WKremote.html ) e vi sono anche sistemi portatili di decodifica automatica dei messaggi in codice morse ( per esempio, della MFJ http://www.mfjenterprises.com/Product.php?productid=MFJ-461 , http://www.mfjenterprises.com/Product.php?productid=MFJ-464 ) o sistemi analoghi perché integrabili con PC laptop, come, per es., quelli di cui al link http://k1el.tripod.com/ , del quale il kit WKUSB è l’oggetto della foto riportata all’inizio di questo post.

domenica 28 giugno 2009

(Post n. 27) Motoaccensioni











Come molti motociclisti di primo pelo, credo di essermi approcciato all’accensione della moto senza particolari timori dopo aver letto il solito “manuale del proprietario”. In questo prontuario si raccomanda di non tener tirata la levetta dello starter (“choke”) per più di X secondi in estate e di X+Y secondi in inverno, avendo poi l’accortezza di lasciar scaldare il motore per Z secondi, prima di partire.
Purtroppo, come forse molti altri miei amici centauri un po’ “spensierati”, non mi sono occupato granché di questo argomento, e quindi mi è bastata la solita spiegazione generale: “levetta choke tenuta tirata oltre i limiti temporali consigliati dalla casa costruttrice del veicolo = eccessivo riscaldamento e conseguente scolorimento delle marmitte, nonché pericolo del fenomeno di scoppi fuori camera di combustione per innesco di fiamma su residui incombusti presenti nei gas di scarico (afterburning)”.
Ebbene, fosse tutto qui non vi sarebbe gran che da considerare, ma non è affatto così: c’è dell’altro eccome!
A motore freddo ho sempre tenuto tirata la levetta choke ai limiti di tempo X d’estate ed X+Y d’inverno nell’eventualità in cui il motore fosse proprio gelato. In quest’ultimo caso non ho mai riscontrato alcunché di anomalo, ma nel periodo estivo, talvolta, si accendeva per breve tempo la spia dell’olio e la cosa non mi piaceva per niente, anche perché, se riuscivo ad evitare questo fatto con un micro rabbocco, dopo appena una decina di avviamenti la spia si accendeva di nuovo e quindi, stante la presenza di guarnizioni a perfetta tenuta, di certo non si poteva imputare la presenza di quell’anomalia ad avarie della spia o ad insufficienza di lubrificante data da logoramento delle fascette raschiaolio dei pistoni, perché i gas di scarico fuoriuscenti dalle marmitte sono sempre stati pulitissimi in quanto del tutto privi di fumi nebulosi. Come si generavano, dunque, quei brevi micro collassi nel sistema di lubrificazione?
Un simpaticissimo amico motociclista dai folti basettoni mi disse: “Attento a non scaldarla troppo all’accensione o si lava il pistone!” oppure “Vedi? … Mica è come nella mia Dragstar: alla Virago gl’han fatto i tubi di raccolta olio… quelli lì…. che van dalle teste dei cilindri alla coppa… troppo stretti, per cui se la scaldi mentre poggia sul cavalletto laterale o se hai un olio un po’ più viscoso della media, la moto ti fa lo scherzetto di farti accendere la spia dell’olio!”.
Dato che l’accensione della spia era fugace dovevo dunque minimizzare la portata dell’evento e trascurare la cosa? No, non mi andava di comportarmi così: volevo capire bene che cosa stesse esattamente accadendo al fine di riuscire a trovare un rimedio.
Cerca che ti ricerca senza successo in Internet, alla fine capitai di fronte ad un vecchio testo di pratica meccanico-motociclistica amatoriale: “La tua moto – Meccanico fai da te – Teoria e pratica” in formato pdf. Testo provvidenziale: lo avessi letto prima di accingermi ad effettuare la prima accensione della mia moto! Ma per fortuna non avevo ancora combinato irrimediabili guai, per cui mi sono subito messo in stato di “salvezza”!
A pag. 55 di quel testo, il paragrafo “Consigli generali” mi ha svelato tre cose interessanti circa l’accensione di una moto:
1) se il veicolo è spento da almeno ventiquattro ore (o anche un po’ meno, se il luogo di stazionamento del veicolo fosse caldo) la vaschetta del carburatore, in cui viene raccolto il carburante proveniente dal serbatoio, potrebbe essersi vuotata a causa dell’evaporazione del carburante stesso. Di conseguenza il motore potrebbe non avviarsi al primo colpo, inducendo così il sospetto di incipienti problemi di ruota libera, in realtà inesistenti.
Per evitare questo inghippo ed il conseguente equivoco appena descritto, il rimedio è semplicissimo: prima dell’accensione inclinare leggermente la moto, per almeno due secondi, sul lato del carburatore al fine di riempirne forzatamente la vaschetta;
2) … “lavaggio dei cilindri” (il famigerato “lavaggio del pistone” cui si è accennato sopra): la levetta “choke” non va affatto intesa come una panacea per ogni avvio, bensì come una necessità dai possibili risvolti pericolosi, in quanto essa determina, all’accensione, un elevato regime di giri, che, a condizioni di olio freddo e miscela più ricca di combustibile, tende a “lavare” via, dalle pareti dei cilindri, quell’utilissima pellicola di olio rimasta su di esse dopo l’ultimo spegnimento del motore, così da produrre una drastica carenza di lubrificazione che può portare al cosiddetto grippaggio, cioè ad una rovinosa abrasione tra cilindri e pistoni con conseguente blocco del motore.
Quindi i limiti temporali di posizione d’apertura della levetta choke andrebbero raggiunti soltanto nel disperato tentativo di mantenere acceso un motore che non volesse tenere i giri al minimo nemmeno con il solo utilizzo dell’acceleratore.
In pratica, tutte le improvvise accensioni estive di spia dell’olio, verificate sulla mia moto appena dopo l’avviamento a freddo ed a choke completamente tirata, erano forse segnali di incipienti microgrippaggi da “lavaggio dei cilindri”?! Meglio non rischiare!
Occhio – mi son detto – : levetta choke tirata, accensione e... se i giri arrivassero subito troppo in alto (: attorno ai 2500), spostare immediatamente la choke fino alla chiusura dello starter cercando al contempo di mantenere acceso al minimo il motore, se questo non tenesse il minimo da sé, con una lievissima tensione sull’acceleratore. La logica è infatti quella di fare avviare un motore freddo mantenendolo (così come fa una centralina elettronica attuale attraverso le informazioni che le giungono dalla sonda lambda) al minor numero possibile di giri e con la miscela meno ricca possibile di carburante, per dar tempo all’olio di scaldarsi e distribuirsi uniformemente prima che l’olio ancora aderente ai cilindri venga “lavato via” dai pistoni.
3) Il famoso tempo Z, oltre il quale non andare per realizzare il giusto riscaldamento, da fermi, del motore di una moto, che senso ha?
Non si sta parlando di moto con radiatori dotati di ventola: si parla di veicoli rudi, con cilindri aventi, quali dissipatori passivi di calore, grosse teste di ghisa alettate. E’ poi il movimento del mezzo che porta, a queste masse roventi, rinfrescanti flussi d’aria. Si è già detto, al Post n. 7, cosa succede a questi motori, quando, dopo averli utilizzati, li si spegne: scricchiolano sonoramente perché, raffreddandosi molto in fretta, si contraggono di volume.
Ora, è ovvio che queste strutture non sono dei monoblocchi, bensì una serie di pezzi di metalli diversi saldamente imbullonati tra loro. Quindi, col passare del tempo, se le escursioni termiche tra stati di quiete e stati di funzionamento fossero eccessive, la struttura andrebbe incontro a cedimenti più rapidi e più gravi.
Non far scaldare al massimo il motore tenendo per lungo tempo accesa la moto da ferma, ma completare tale riscaldamento nel primo tratto del viaggio, procedendo a moderato regime di giri, evita picchi di temperatura e stress meccanici, allungando la vita del veicolo.
[Nella prima foto di questo post, un particolare della mia Virago 1100, lato carburatore; nella seconda foto una fila di custom parcheggiate al Lido Po di Guastalla durante il tredicesimo motoraduno Ride With Pride.]

domenica 21 giugno 2009

(Post n. 26) Cuori in Atlantide

Per leggere una recensione e vedere la locandina: http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=33741

Dal mio punto di vista… Nella vita arriva un momento in cui ogni essere umano si chiede se l’amicizia possa esistere davvero anche tra individui apparentemente molto diversi tra loro, oppure se qualsiasi rapporto sociale sia rigidamente soggetto soltanto alla legge ed alla logica del denaro. In tale circostanza, quindi, ci si trova di fronte ad un grave dilemma: credere che nel cuore umano possa, nonostante le difficoltà e le grandi disillusioni del vivere quotidiano, giacere qualche barlume di innocenza, oppure, per dirla con il Rosseau, capacitarsi del fatto che “lo stato di guerra nasce dallo stato sociale”, cosicché ogni manifestazione di umana bontà debba necessariamente essere considerata come o stupidità o raggiro. La questione non è nuova: si pensi, per esempio, a “L’idiota” di Dostoevskij.
( http://it.wikipedia.org/wiki/L%27idiota_(Dostoevskij) ).
La storia narrata dal film “Cuori in Atlantide” mette di nuovo, ma in modo più compassato ed indiretto, il dito in questa piaga (che poi, come ben si sa, è il problema della resa dell’animo al cinismo ed alla paura dell’ignoto) lanciando una sfida di fede allo spettatore. Penso che, almeno per amor proprio e dei propri cari, si possa cercare di coglierla nel tentativo di vivere una vita migliore.
Questa, al di là del tema emergente come principale, mi pare l’essenza della storia: se qualcuno avesse scorto altro, ben felice di ampliare il mio angolo visuale.

(Post n. 25) Grafologia? Vediamo…


Nel Post n. 13 si è enunciato il concetto di pseudoscienza. Ebbene, eccone un altro esempio: la grafologia vorrebbe essere quella branca della psicologia che ha come oggetto l’individuazione della personalità di un essere umano attraverso l’analisi grafometrica della sua libera (cioè non del tutto costretta entro un artistico canone formale) calligrafia. Si dà il caso, però, che non esistano ancora norme per la costituzione di un ordine dei grafologi. Ciò perché non è stata ancora ritenuta scientificamente attendibile alcuna teoria grafologica anche se in ambito forense vengono ammesse, con estrema cautela, analisi grafometriche comparative del tratto calligrafico nel contesto di indagini volte a stabilire la paternità di una firma o di un documento manoscritto.
(http://www.overlex.com/stampa.asp?id=1904&txttabella=articoli)
Una cosa abbastanza buffa è poi l’insorgere di un equivoco in ambito attrezzistico: il grafometro è, tanto un attrezzo marinaresco utilizzato per effettuare rilevamenti topografici quanto uno strumento (strutturalmente del tutto diverso) utilizzato in grafologia per misurare e classificare le diverse calligrafie.
Dato che mi sono interessato alla calligrafia come fenomeno grafico creativo di simboli, prima che come forma d’arte, non potevo di certo lasciarmi sfuggire, sempre nell’ambito di quest’ottica, le oggettive classificazioni grafometriche della grafologia. Queste, infatti, sono indubbiamente di ordine grafico, prima che psicologico, e quindi, inerendo sempre al fenomeno della riconoscibilità della scrittura, sono in grado di misurare chiaramente fino a che punto possano spingersi le forme reali (allografi) mantenendo comunque la propria capacità evocativa delle forme ideali (grafemi)… e, magari, non soltanto questo: chissà cos’altro potrebbe emergere, di realmente oggettivo e quindi non opinabile, a seguito di una più approfondita analisi statistica. Ma ovviamente, per effettuare queste valutazioni avrei bisogno di confrontare tantissimi campioni in un mondo, in cui, purtroppo, ormai si digita tantissimo, si firma manualmente ancora abbastanza di frequente e si scrive con carta e penna sempre di meno e sempre più raramente.
In pratica mi vergogno quasi a chiedere aiuto a chi abbia voglia di inviarmi qualche campione calligrafico scannerizzato ma… sinceramente, non vedo altra soluzione.
Grazie in anticipo a chi avrà occasione e buona volontà al riguardo.

La foto all’inizio di questo post deriva dalla scannerizzazione di un campione di simulata “graficomania”, che ho realizzato con una biro Bic Z4 Roller Black 0.5 mm (uno strumento che ritengo ideale, per esperimenti di questo genere). In pratica, piazzandomi di fronte ad un foglio bianco, ho recitato la parte di una persona che scrive, senza, in realtà, scrivere alcunché.
Il vocabolo testé citato tra virgolette deve intendersi come equivalente, in campo grafico, del vocabolo “glossomania”, il quale riguarda, invece, questioni puramente verbali. Infatti, come un malato mentale affetto da sindrome glossomaniacale utilizza il proprio apparato fonatorio per emettere sequenze di sillabe senza senso e senza regole sintattiche definite, ma articolate con un ritmo ed una cadenza tali da far intendere a chi lo ascoltasse che egli stia parlando una lingua sconosciuta, dei semplici ghirigori, aventi dimensioni simili a quelle di vocaboli vergati su di un foglio come per costituire un manoscritto, possono sembrare un qualche tipo di scrittura: una stenografia, la scrittura di una lingua morta od un codice segreto.
Chiusura del post con provocazione: ma se ci si mette, con carta e penna, a simulare la scrittura, quello che si ottiene, non essendo allografo, potrebbe mai essere il famoso “tratto calligrafico personale” allo stato puro?

(Post n. 24) Classiche palette “supreme”


Ecco qui due paddle classici (: cioè con ritorno a molla anziché a magnete) che, a detta di tantissimi telegrafisti di diverse nazioni, si contendono il primato dell’eccellenza meccanica in fatto di sensibilità e reattività al tocco dell’operatore. Uno scontro tra titani, insomma.
Da un lato un massiccio extra-lusso lombardo: il paddle Simplex che è uno dei tanti magnifici prodotti del collega bresciano I2RTF: http://www.i2rtf.com/html/keys_paddles.html ; dall’altro una intramontabile leggenda teutonica: l’ultra preciso e raffinatissimo Profi 2 della, ahimé, ormai cessata Shurr Morsetasten (http://www.dl0bn.de/schurr/ ) comunque degnamente “confluita” nella Scheunemann Morsetasten (http://www.scheunemann-morsetasten.de/ ).
Difficile davvero, per me, paragonare due espressioni dell’ottimo come queste, ma, con estremo rispetto per entrambe, posso provarci partendo, innanzitutto, da importanti dati oggettivi.
Considero, per iniziare, il fattore stabilità durante l’uso: il peso dei due tasti è, rispettivamente, di 1191 e 1431 g, relativamente a superfici di ingombro di circa 7,70 x 7,70 cm. per il Simplex e di 10,00 x 8,00 cm. per il Profi 2; quattro gommini d’appoggio per il primo paddle e tre per il secondo. Su di una superficie di formica opaca mi ci sono rispettivamente voluti circa 201 e 377 g di spinta esercitati su una delle due palette per spostare lateralmente ciascuno dei due paddle.
Ora vediamo la diteggiatura. Si può iniziare dicendo che il Simplex è un tasto a maggior tensione di paletta, infatti esso ha una molla di tensione di 1,40 cm per ogni leva ed una distanza paletta-fulcro di 7,0 cm, mentre il Profi 2 ha soltanto una molla di tensione di 0,40 cm (con regolazione laterale a destra, circa a parità di diametro e di distanza tra le spire) ed una distanza paletta-fulcro di 5,70 cm.. Molto significativa, secondo me, la distanza tra le palette: 1,90 cm nel Simplex, 1,30 cm nel Profi 2. Il che mi induce a pensare che Begali, con tale maggiore ampiezza, abbia voluto indurre nell’operatore una diteggiatura ad esclusivo movimento di dita per far diminuire le spinte destabilizzanti laterali, mentre Shurr abbia pensato di strizzare un occhio anche ad un certo gioco pesante di polso, tipico degli operatori provenienti dall’utilizzo di side-swiper o di single-lever key. Ciò, secondo me, spiegherebbe anche la tradizionale maggior cedevolezza, al tatto, delle palette del Profi 2 e la loro regolazione di base a movimento un po’ “piacevolmente ampio” per un paddle moderno, mentre, il Simplex ha, di base, una regolazione micrometrica dei contatti (tralaltro in oro!) esasperatamente stretta e quindi propria di un attrezzo fatto per correre a suon di lievissime e nervose carezze dei polpastrelli. L’opinione che mi sono fatto su questi due prodotti è quindi quella che il Simplex sia uno scalpitante tasto "da corsa", mentre il Profi 2 sia un piacevolissimo tasto "da passeggio".

giovedì 11 giugno 2009

(Post n. 23) La neve nel cuore

Per leggere una recensione e vedere la locandina:
http://it.movies.yahoo.com/l/la-neve-nel-cuore/index-148084.html

Dal mio punto di vista… Devo dire che ho trovato, in giro per la rete, molti pareri al vetriolo sulla storia narrata da questo film, per cui sono andato a cercare il link con la recensione che mi sembrava più scarna e neutrale.
La spinosa questione ricorrente nei commenti più “piccati” è quasi sempre la stessa: scarsa credibilità della psicologia dei personaggi e loro conseguente comportamento piuttosto assurdo in quanto talvolta in radicale ed inspiegabile contrasto con le qualità morali ed intellettuali ad essi attribuite in premessa.
A mio modesto parere le cose stanno diversamente: l’autore ha sfidato, appunto sul filo dello stridente assurdo in parola, lo spettatore, facendogli così notare come la serietà dei sentimenti di persone tutte fondamentalmente inclini al bene, possa, in momenti di crisi, alterare i comportamenti facendoli delirare nei soggetti più morigerati e diventare, per converso, più razionali in quelli che invece sembrano essere individui stravaganti.
Questi ultimi, meno legati al peso psicologico degli stereotipi sociali, pare che siano infatti più duttili nel gestire per il verso più efficacemente costruttivo i momenti di grave sconforto e conflitto nei quali, del resto, anche il destino, alla fine, viene in qualche modo spronato a far emergere buone occasioni che non saranno sciupate da alcuno.
Credo, insomma, che, sotto la scorza di innocue, strane, frivole o paradossali apparenze, si sia di fronte ad una pregevole opera di narrativa.
Questa, al di là del tema emergente come principale, mi pare l’essenza della storia: se qualcuno avesse scorto altro, ben felice di ampliare il mio angolo visuale.

(Post n. 22) Tasti telegrafici automatici



Già nel Post n. 14 si è parlato del raro tasto telegrafico, a due bracci oscillanti, Meleahan-Valiant. Ebbene, fu questo tipo di tasto il primo tasto telegrafico automatico a comparire sul mercato dopo i bug dei quali si è parlato nei Post nn. 4 e 20. Con esso iniziò, quindi, la fine di un’era: quella in cui la durata degli impulsi morse veniva totalmente o parzialmente determinata dal telegrafista durante la digitazione.
Cosa resta, dunque, come attuale retaggio di questo tasto automatico interamente meccanico? Ecco che cosa ho trovato, finora:
http://www.mtechnologies.com/ghd/gn907.jpg (tradizionale) e
http://www.mtechnologies.com/ghd/gn907ap.jpg (addirittura con sensore ottico!)
della giapponese GHD (
http://www.mtechnologies.com/ghd/ ) del collega JA7GHD;
http://www.webalice.it/crapellavittorio/ik1ojm/frame.html (voce: "doppio vibro")
del collega IK1OJM il quale sostiene che il Meleahan-Valiant non ebbe seguito a causa di un problema strutturale, tipico peraltro di tutti i tasti telegrafici automatici meccanici (o doppi bug): la grave difficoltà di riproduzione, su queste macchine, della codifica morse delle lettere C, K ed Y. Penso che IK1OJM alluda alla non fulminea reattività e non perfetta regolarità pendolare del plesso oscillante di qualsiasi bug, cioè a quei medesimi limiti meccanici che han fatto desistere gli inventori dal promuovere l’utilizzo di un doppio bug che fosse a due palette indipendenti.
Ovviamente i colleghi OM sono sempre invitati a darmi notizie, consigli, ragguagli, ed a discutere costruttivamente in merito a queste cose curiose.

Nella foto sopra riportata si vedono un “single lever key” della Kent (l’ho costruito qualche anno fa dal relativo kit di montaggio) ed un modello base del famosissimo paddle della Bencher, appoggiati sopra un datato ma interessante keyer della MFJ: il Deluxe Electronic Keyer modello MFJ-407C, il quale, a differenza di molti altri keyer, non ha soltanto il potenziometro per la regolazione della velocità di produzione degli impulsi morse, ma anche i potenziometri per la regolazione del volume, del tono e perfino del peso, vale a dire del rapporto esistente tra le due diverse durate dei due tipi di impulsi morse, al fine di conferire un sensibile tocco personalizzante alla digitazione del messaggio così che esso risulti subito riconoscibile, come lo sarebbe in fonia un certo timbro di voce, in mezzo a tutte le altre trasmissioni di un certo pile-up, cioè di una comunicazione affollata per la presenza di parecchi interventi trasmissivi di molti operatori.
Ovviamente esiste, sulla plancia di questo keyer, anche un tasto per la selezione dei modi semiautomatico ed automatico, ed un tasto tune per effettuare l’accordatura.
Per i non OM, si precisa che la foto in parola illustra anche l’ultima storica fase tecnico-evolutiva dei tasti telegrafici: prima il tasto orizzontale a braccio singolo (o "single lever key", strutturalmente piuttosto simile al side-swiper ma elettricamente del tutto diverso da esso) sostituì, in tandem con il relativo keyer, il doppio bug, poi giunse l’era attuale, cioè quella del tasto orizzontale a palette, ovvero, come detto, del paddle.
In alcune delle attuali produzioni di quest’ultimo strumento, meccanicamente davvero assai semplice, è stata posta estrema cura per i dettagli riguardanti il design, la qualità dei materiali, nonché la precisione e la sensibilità dei meccanismi. Ne sono quindi scaturiti dei paddle piuttosto famosi degni ovviamente di keyer dalle elevate prestazioni e di pregevole qualità.

domenica 7 giugno 2009

(Post n. 21) Grammatologia


Oggetto: perché tengo sotto mano il saggio dal titolo “Della grammatologia” di Jacques Derrida – ISBN 88-16-40442-6 ?

Per chi volesse leggere due interessanti ma piuttosto impegnative recensioni di quest'opera consiglio i link:
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/filosofi/schedeopere/derrida.htm ,
http://www.sciacchitano.it/Oggetti/cose%20epistemiche.pdf

Ma ora veniamo all’esperienza personale.
Quando si dice “E’ un discorso lungo e complicato!” forse ci si dimentica che la sintesi, pur essendo spesso un po’ criptica, può comunque stimolare l’intuito umano a comprendere meglio come approcciarsi panoramicamente ai problemi nel tentativo di trovare soluzioni efficaci a ben determinate questioni contingenti. Ad ognuno poi, nel proprio intimo, spetta capire, dal rapporto tra profondità e prolissità riscontrate in un testo estremamente dettagliato come quello cui si riferisce questo post, quale sia l’effettivo livello di utilità pratica ricavabile da un tal tipo di lettura.
Come ogni dovizioso saggio che si rispetti, “Della grammatologia” è un gigantesco serbatoio di pensieri che, approcciando da una miriade di ottiche diverse il tema della funzione e del livello di funzionalità proprie di qualsiasi scrittura sia stata inventata dal genere umano, cerca di andare oltre i confini della semiotica tradizionale nel tentativo di portare alla luce i residui dettagli, ancora misteriosi, di alcuni meccanismi profondi che governano le relazioni tra pensiero, linguaggio e scrittura.
E’ questa tutta la sintesi (alla quale ho accennato all’inizio del post) che sono in grado di fornire riguardo al contenuto di quest’opera cui talvolta ricorro al fine di trovare ispirazione per costruttivi spunti polemici interiori quando mi capita di cozzare contro qualche paralizzante paradosso nella lettura di altri testi assai più tecnici… e talvolta, lo confesso, il “giochetto” funziona!

Il grafema all’inizio del post è quello della fehu: la prima lettera del fuÞark arcaico, ovvero dell’alfabeto runico più risalente che si conosca. Ho scelto questa immagine perché essa ricorda un evento unico nella storia della scrittura: la rideterminazione dell’ordine lessicografico negli alfabeti nord-italici.
Curiosità: per chi non lo sapesse, attualmente i reperti più promettenti per determinare le origini dell’alfabeto runico sono emersi da iscrizioni ritrovate in uno scavo archeologico tra i monti di Auronzo di Cadore, nel Bellunese.

mercoledì 3 giugno 2009

(Post n. 20) I bug della Vibroplex


Gli OM appassionati di telegrafia forse sanno già tutto riguardo all’argomento che si sta per trattare, gli altri, invece, farebbero forse bene ad essere invogliati a proseguire nella lettura di questo post perché si sta per presentare un vero e proprio mito tra i tasti telegrafici orizzontali: i bug della Vibroplex. Già qualcosa al riguardo è stata anticipata nel Post n. 4, ma qui si illustrano gli storici passaggi tecnico evolutivi che hanno portato alla creazione di questi bug e ci si compiace un po’ nell’allestimento di qualche scarna ma essenziale classificazione.
I tasti telegrafici manuali sono stati già visti: quello verticale nel Post n. 2, quello orizzontale detto side-swiper nel Post n. 14. Pigiati, questi tasti trasmettono un impulso morse senza soluzione di continutà fintantoché non vengono rilasciati. Allora essi cessano la trasmissione per effetto di molle o magneti permanenti che riportano il loro braccio mobile all’iniziale posizione di “riposo”.
Con l’intento di defaticare muscolarmente i telegrafisti, costretti, con i tasti manuali, a dosare uno per uno tutti gli impulsi morse e la loro relativa durata fino ad essere spesso vittime di dolorosi e paralizzanti crampi (fenomeno fisiologico del "glass arm", letteralmente: "braccio di vetro"), l’inventore Horace G. Martin brevettò, nel 1902, basandosi sul circuito del campanello elettrico, un nuovo tipo di tasto telegrafico orizzontale: il tasto semiautomatico elettromeccanico Autoplex (
http://www.chss.montclair.edu/~pererat/g_aut2.jpg ). Questo, però, aveva la pecca di necessitare di batterie ed elettromagneti. Occorreva quindi un tasto che fosse più economico, nonché semplice e pratico da costruire, trasportare e gestire di fino nelle regolazioni. Così, lo stesso Martin brevettò, nel 1904, un tasto semiautomatico interamente meccanico che, ad opera di J.E. Albright, costituì, a partire dal 1915, l'idea di base per la creazione di tutti i tasti semiautomatici della Vibroplex.
Il sito
http://www.vibroplex.com/ non presenta soltanto la corrente e pregiata produzione dalla Vibroplex, ma anche un’area che funge da museo virtuale dei pezzi storici, un prezioso strumento tabellare di datazione dei tasti in base al numero di serie impresso accanto al loro marchio di fabbrica, e tante altre curiosità e servizi forniti ai clienti di questa casa produttrice.
Nella foto un bellissimo Original Bug del 1954, che ho trovato in stato di superba conservazione insieme al proprio originale cofanetto da viaggio. Riguardo ad esso, però, mi resta soltanto un dubbio: nel '54, gli Original Bug montavono forse i pesi dei Blue Racer? Ai più esperti l'ardua risposta.

martedì 2 giugno 2009

(Post n. 19) Turista per caso

Per leggere una recensione e vedere la locandina:

Dal mio punto di vista... A volte non si sa perché ci si affeziona a certe storie, anche se il tema trattato è, nonostante il lieto fine, drammaticamente sgradevole. Probabilmente è il desiderio di mettere logica dove essa pare che non vi sia, a creare questo vincolo. L’elaborazione mentale dei fatti narrati può essere anche piuttosto lunga e laboriosa ma indubbiamente la sfida si vince sempre utilizzando l’incontrastabile arma dell’onestà intellettuale: i personaggi non possono usarla appieno perché sono calati nella realtà, anche se fittizia, e quindi risultano spesso frastornati dalle proprie ancestrali paure e dal tempo che urge, fino al punto di avere a disposizione un libero arbitrio a funzionalità piuttosto limitata. Lo spettatore, invece, può, dall’alto della propria agiata situazione, astrarre maggiormente e quindi vedere un più elevato numero di possibili alternative. E’ questa un’operazione consigliabile per conferire a qualsiasi “fiaba” l’utilità che essa merita e per capirne la reale caratura.
Nel caso di specie, a mio modesto parere, penso che questa misura di valore sia altissima: la lotta per la felicità non è altro che la trasposizione concettuale, nella società del benessere materiale, della lotta per la sopravvivenza sostenuta da tutte le creature nella natura selvaggia. Per chi è sconfitto resta infatti lo spettro del male oscuro della depressione che equivale alla perdita della vita attraverso la perdita della vitalità. Il tema è serissimo ma solo due donne sembra che se ne accorgano subito, in questa storia: Muriel e Rose. Sono loro, modestissime e mansuete persone qualunque, le battagliere eroine a sorpresa imprimenti una svolta generalmente positiva ed incoraggiante a tutta la vicenda.
Questa, al di là del tema emergente come principale, mi pare l’essenza della storia: se qualcuno avesse scorto altro, ben felice di ampliare il mio angolo visuale.

sabato 30 maggio 2009

(Post n. 18) RDF, ovvero “caccia ai volponi”. L’inizio.


Ecco, qui, per ora, mi trovo abbastanza a digiuno di dati ma ho un gran desiderio di documentarmi e di capirci bene qualcosa. Nel titolo del post non è stato scritto Fox Hunting, ovvero Caccia alla Volpe, proprio per evitare equivoci con argomenti venatori: tutti sanno, infatti, che cos’è un volpone. Il furbastro in parola, però, ha a che fare, in questo contesto, esclusivamente con le radiocomunicazioni, e può essere o legale od illegale. Nel primo caso lo scaltro individuo è un simpatico collega OM che, in una contesa sportiva, occulta una propria radiosorgente in una zona boscosa accessibile ad altri OM concorrenti i quali, con specie di radiogoniometri più o meno autocostruiti, fanno a gara a chi afferra per primo l’oggetto nascosto dal furbastro.
Nel secondo caso, invece, il volpone è un tristo figuro, indubbiamente affetto da qualche problema psichico piuttosto serio anche se non intellettualmente invalidante, il quale trae una sorta di sadico piacere nel disturbare, in stato di anonimato, le radiocomunicazioni (per lo più transitanti attraverso ponti ripetitori) con silenzianti onde portanti di elevata potenza oppure con ogni sorta di amenità sonore talvolta illegali anche nel contenuto.
In entrambe le circostanze comunque, l’attività volta ad acciuffare il volpone o la sua radiosorgente è sempre definita con la sigla RDF la quale è acronimo di Radio Direction Finding, ovvero di ritrovamento della zona di provenienza di un segnale radio. Il gioco non è sempre così semplice, infatti il secondo volpone di cui si è parlato, nel tentativo di essere imprendibile, di solito utilizza una radio posta entro un veicolo costantemente in movimento, ma ciò, tuttavia, non lo mette in salvo da una buona indagine. Ho trovato l’argomento RDF piuttosto interessante e, per iniziare a caprici a fondo qualcosa, ho acquistato il testo di cui alla pagina web:
Ovviamente non pretendo di arrivare ai livelli ultra professionali di http://www.rdfproducts.com/index.htm ma imparare qualcosa di utile per approfondire l'argomento con gli appassionati colleghi di http://www.qsl.net/vk3zpf/webring1.htm oppure con gli altri colleghi di http://www.ardf.info/index.shtm potrebbe essere interessante. Quindi, tanto per partire bene, un po’ di amene letture, poi uno sguardo ai kit di DF, tipo: http://members.tripod.com/~clearRX/RDFUNIT.HTM .
Intanto, ogni eventuale consiglio di OM esperti del settore mi sarà più che gradito.

martedì 26 maggio 2009

(Post n. 17) Calligrafie


Molti penseranno ad un argomento da ragnatele ed odor di muffa, tipico di una sorta di arte minore, particolarmente cara a mentalità bacchettone ottocentesche ma… niente di più falso: si è invece di fronte a semplice grafica, cioè, per l’esattezza, a quella scienza/arte che combina insieme concetti di geometria, di stile e di psicologia della visione. Concetti ben noti, per esempio, agli architetti, ed a studiosi molto arguti come lo svizzero Adrian Frutiger.
Per alcune civiltà questi sono argomenti importanti: le culture estremo-orientali, per esempio, riconoscono un grande valore artistico a tutti i testi manoscritti (di cui le immagini pittoriche, rigorosamente bidimensionali, sono il commento visivo) e concepiscono invece le firme come qualcosa di immutabile da apporsi mediante utilizzo di un sigillo di giada. In base ad una logica diametralmente opposta , invece, nella nostra cultura i testi sono preferiti se a stampa (facendo spesso da commento alle immagini) e le firme vengono concepite come tali soltanto se manoscritte e se simili ma mai perfettamente identiche l’una all’altra; talvolta, poi, esse vengono considerate accettabili anche se illeggibili, ovvero se ridotte a qualcosa che si avvicina alle cosiddette “sigle”, cioè a simboli con funzione di identificazione personale dell’autore del testo, così come se fossero manuali ed instabili grafie di sigilli medievali per ceralacca.
Quando ero bambino – si sa che razza di pesti ficcanaso siano i cuccioli – rovistando in cerca di meraviglie nei cassetti di un armadio della camera da letto di un celibe zio paterno con noi convivente, scoprii un album di falserighe per allenamento calligrafico: qualcosa che ora mi risulta introvabile anche nei negozi di stilografiche ed attrezzi scrittori da collezione. Quel prezioso eserciziario andò poi cestinato come vecchia ed inutile maceria di casa, in uno dei soliti ripulisti di soffitta, ma io non digerii tanto bene la cosa per cui, a distanza di anni, tentai un recupero di “dati” con testi ed attrezzi calligrafici di vario tipo, alcuni dei quali, addirittura, autocostruiti. Ne è scaturita, insomma, una fervida passione, sia artistica sia scientifica, per i segni ed i simboli, qualcosa che mi accompagna ormai da più di una dozzina d’anni e della quale scriverò più avanti, per singoli episodi.
Nella foto una piccola parte (: nel campo di ripresa, chiaramente, non ci entrava di più) dei miei “attrezzi del mestiere” di calligrafo hobbistico.

venerdì 22 maggio 2009

(Post n. 16) La prima ham-radio di IZ2LTX


Piccolo anacronistico (per questo blog) intermezzo tecnologico? Vediamo... La prudenza suggerisce di cominciare sempre con “poco”. Così, come tutti i neo-OM, anch’io ho iniziato le mie ricetrasmissioni, in fonia e con tanto imbarazzo, utilizzando una piccola radiolina palmare: la Kenwood TH-F7E.
Per la cronaca la versione 7E è per l'Europa, mentre la 6A è per l'America e dispone, in più, del controllo remoto wireless, con cui è possibile, in USA, sulla banda di frequenza dei 70 cm, comandare a distanza un ricetrasmettitore dotato dei sistemi DTSS e controllo remoto. Questo "pilotaggio a distanza" viene effetturato mediante la funzione DTMF, presente su entrambe le versioni della TH-F ed utilizzabile in USA ed in Canada anche per avvalersi del servizio di Autopatch, cioè per poter interconnettere radio di questo tipo alla rete telefonica pubblica.
Indubbiamente si tratta di cose qui per ora irrealizzabili sia a causa di una norma che stabilisce l'obbligatorietà del presidio di una stazione radioham non automatica da parte del suo titolare quando essa sia in funzione, sia perché il servizio di Autopatch non è stato implementato; comunque, il DTMF è qui utilizzabile per interagire coi ponti Echolink ed annullare così ogni limite fisico nelle comunicazioni radio mediante l'interconnessione attuata attraverso Internet.
Come si può intuire, quindi, le conoscenze tecniche in fatto di miniaturizzazione della componentistica elettronica hanno ormai raggiunto livelli così elevati che non si può più giudicare un prodotto di questo settore partendo esclusivamente dalle sue dimensioni. La radio palmare in parola, come appena constatato, è infatti un concentrato di tecnologia in un piccolo parallelepipedo di circa 8 cm di altezza, per 5 cm di larghezza, per 3 cm di profondità, per un totale di 226 g di peso, al netto dell’antenna, da considerarsi, com’è ovvio, quale corpo aggiunto sostituibile a piacere. In pratica si tratta di qualcosa di molto simile, per volume e prezzo, ad uno smartphone di ultima generazione.
L’antenna originale (detta in gergo e scherzosamente: “gommino”) è alta circa 16 cm e pesa 23 g, mentre quella, sempre portatile ed a stilo, da me successivamente acquistata e che si vede nella foto, è una Diamond SRH999 per le bande di frequenza dei 50, 144, 430 e 1200 MHz. Naturalmente, essendo più performante, essa ha misure maggiori della precedente, infatti è alta 50,70 cm e pesa 62 g.
Il mio primo timido QSO in fonia è avvenuto, attraverso il ponte ripetitore R0 di Polinago (Modena), il 26 maggio 2007, all’ora UTC 23.10, con Giuseppe IW4AGE, QTH Cento di Ferrara, e si è concluso alle 00.10. Rapporto RST: 5, 9, - . Niente male per una potenza massima di 5 W ed uno striminzito gommino che, da dove mi trovavo al ponte R0, ha spinto il mio segnale a circa 60 Km di distanza!
Tutte le specifiche tecniche di questa radio palmare si possono trovare alla pagina web:
Gli amici OM in possesso di questo bel gingillo o di equivalenti sono ovviamente invitati a divertirsi effettuando, con l'autore di questo post, prove di approfondimento e miglioramento di tutte le potenzialità più o meno nascoste di questo RTX,
73 de IZ2LTX

(Post n. 15) Motoraduni, Run e Radunanze


Come si è già accennato nel Post n. 7, attorno agli appassionati di moto custom orbita tutto un universo filosofico piuttosto naif che crea lo stile di vita turistico, libero e “ruspante” solitamente tipico di chi viaggia su questo particolare genere di veicolo. La moto “da passeggio” è infatti qualcosa che tende a valorizzare tanto il piacere di guida quanto la visione panoramica del paesaggio. Ma ovviamente la storia non finisce qui: nelle custom viene anche esaltata la bellezza e la tipicità del design, la qualità dei materiali e, non ultimo, perfino il “suono” del motore.
Da tutto ciò deriva il fatto che tra questi veicoli emergono spesso dei veri e propri gioielli della meccanica e della carrozzeria, e talvolta pezzi unici personalizzati o addirittura minuziosamente autocostruiti, per cui sarebbe un vero peccato che tali meraviglie restassero confinate in qualche garage o in un salone da esposizione: esse debbono essere “vissute” ed orgogliosamente mostrate in motoraduni, run e radunanze. Questi sono, infatti, i tre diversi tipi di ritrovi tra appassionati: il primo si concretizza in un assembramento entro un’area aperta al pubblico e con funzione prevalente di zona di festival e di esposizione dei veicoli fin lì condotti dagli stessi motociclisti partecipanti all’evento; il secondo è un motogiro turistico in gruppo lungo un percorso predeterminato; il terzo, infine, è un assembramento di moto e motociclisti [per comprendere meglio il concetto: radunanza + (mercatino accessori moto, punti di ristoro, spettacolo musicale ed apertura al pubblico) = motoraduno].
Nella foto sopra riportata, si vede uno splendido chopper che ha fatto la propria folgorante comparsa nell’ultimo motoraduno (dall’8 al 10 c.m.) organizzato a Monzambano dai Custodi delle Colline: il motoclub custom di quella bella cittadina adagiata sulle colline moreniche del lago di Garda

mercoledì 20 maggio 2009

(Post n. 14) Side-Swiper: l’impossibile?

Tanto per cominciare con un po' di mistero, niente foto all’inizio di questo post: tutto sarà svelato, in prosieguo, ai non addetti ai lavori, mediante opportuni link. Gli OM, invece, potrebbero addirittura saltare direttamente alle ultime tre righe, ma forse non disdegnerebbero rivedere, con gli stessi link, alcune splendenti "chimere" dei propri sogni hobbystici.
Partiamo!
La storia della tecnologia conosce momenti in cui, per effetto del rapido succedersi di varie scoperte e miglioramenti tecnici, alcune produzioni, anche se appena iniziate, vengono interrotte per essere subito sostituite da altre che immettono sul mercato beni più avanzati e convenienti. In tali casi i beni cessati di produzione acquisiscono, tra i collezionisti, un elevato indice di rarità, dato, appunto, dal loro limitatissimo numero. Questa, nel campo dei tasti telegrafici, è stata forse la sorte tanto di un particolare tasto manuale detto sideswiper ( http://www.morsemad.com/paddles_files/198.jpg ), sostituito dal tasto semiautomatico (v. Post n. 4), quanto del tasto automatico a due bracci oscillanti (sostanzialmente un doppio bug) Meleahan-Valiant ( http://www.zianet.com/sparks/valiantbig.html ), prodotto dalla Shultz Tool & Machines, e poi soppiantato dal tasto paddle( http://www.bencher.com/ham/images/by2.jpg ) collegato al relativo keyer ( http://w4ti.net/k5-1.jpg ), cioè ad un apparato elettronico che invia impulsi morse al ricetrasmettitore. Più precisamente il keyer produce silenziosamente, al proprio interno, interminabili sequenze dei due tipi di segnali morse e riceve elettricamente dal tasto paddle, che nei suoi confronti si comporta come un particolare tipo di interruttore, l’ordine di inviare, al ricetrasmettitore radio, o l’impulso breve o quello lungo od entrambi intervallati l’uno all’altro, a seconda di come il telegrafista manipola il tasto ed imposta i parametri del keyer stesso ( http://www.youtube.com/watch?v=X_uVQavmXCs&feature=related ). Per monitorare all'orecchio dell'operatore la manipolazione del tasto, il keyer produce un segnale acustico “locale”: si tratta del cosiddetto “side tone” già citato nel Post n. 12.
Dispositivi quasi identici ai sideswiper ed ai doppi bug storici vengono attualmente prodotti, con innovativo design, da nuove ditte. Il sideswiper, in particolare, data la sua rudimentale struttura meccanica e la sua estremamente tipica modalità d’impiego, riscuote ancora, tra molti appassionati di telegrafia, un certo interesse (
http://sideswipernet.googlepages.com/home ), ma ha, al momento, poche linee di produzione “classiche”. Quella, tra esse, che mi ha colpito di più, è: http://web.tiscalinet.it/i2viu/ik1ojm/sideswip.html .
Per una valida spiegazione dell’utilizzo di questo tipo di tasto telegrafico orizzontale si veda:
http://www.youtube.com/watch?v=ZfLrgYHIpjo .
Il sideswiper mi incuriosisce parecchio e se qualcuno ne avesse già utilizzato diverse versioni, mi piacerebbe conoscere le sue impressioni al riguardo.

domenica 17 maggio 2009

(Post n. 13) Verità nascoste


Quanti messaggi invisibili passano sotto il nostro naso? Un’infinità, forse.
Ogni segno può essere un simbolo ed ogni simbolo può comunicare più concetti: è poi il contesto in cui la comunicazione avviene che, alla fine, precisa, più o meno chiaramente, il significato di ciò che si vuole comunicare.
Si tratta di argomenti difficili? Non lo so, ma di certo si sta considerando una specie di “caccia al tesoro” alla quale molti non riescono a resistere. Quasi ogni persona, infatti, è affascinata dai misteri ed avvinta dal desiderio di risolverli: è questo uno dei principali moventi che ha spinto l’umanità ad evolversi tecnologicamente nel corso dei millenni.
Non c’è quindi da stupirsi del fatto che, in certi periodi della storia, occultismo e scienza fossero vistosamente in stato di reciproca commistione entro un unico corpus di studi e che lo stesso Newton coltivasse entrambe tali “discipline” con identica dedizione (si allude al suo fervido interesse per l’alchimia prima che questa assurgesse a chimica): la scienza, infatti, prima di essere tale, si evolve dal misticismo magico, senza soluzioni di continuità, attraverso uno stadio intermedio di sviluppo conosciuto come “pseudoscienza”. Questo progresso, tuttavia, non è propriamente epocale, e quindi potrebbe manifestarsi, più o meno vistosamente, in qualsiasi tempo ed ogniqualvolta vengano inventate macchine che siano in grado di individuare la presenza di fenomeni precedentemente non rilevabili in quanto o sconosciuti o da tempo soltanto immaginati come probabilmente esistenti ma mai riscontrati in pratica.
Dove si vuole arrivare con questi “strani” discorsi? Sostanzialmente a nessuna posizione preconcetta: si vuole semplicemente tenere la mente aperta ad ogni cosa curiosa e, tanto la simbologia in genere quanto la scrittura in particolare, di cose di questo tipo ne hanno veramente moltissime, proprio perché stanno alla radice di tutto lo scibile umano quali mezzi utilizzati per il trasferimento e la conservazione delle informazioni.
Ma quali informazioni si possono ottenere quando, dal passato o dal presente, ci giungano segni che non si sa se siano decorazioni o simboli, oppure scritture con caratteri del tutto ignoti o noti ma ordinati in modo apparentemente privo di significato? Burle o verità nascoste?
Basti ricordare, per esempio, i pittoreschi casi del Manoscritto di Voynich (http://it.wikipedia.org/wiki/Manoscritto_Voynich) o dello strano Codice Rohonczi (http://en.wikipedia.org/wiki/Rohonc_Codex ), tanto per restare, alla buona, a parlare di questioni dall’aspetto storico vistosamente colorito. Vi sarebbero, infatti, anche casi analoghi ma di gran lunga più tecnologici ed assai meno appariscenti, che vanno dalle comunicazioni radioelettriche occultate nel rumore bianco del redshift mediante le tecniche di modulazione del salto di frequenza e della dissipazione di spettro ( http://en.wikipedia.org/wiki/Frequency-hopping_spread_spectrum ), fino ai tentativi di rinvenire messaggi entro sequenze caotiche di dati provenienti da qualsiasi sorgente, mediante apparati decodificatori di alta tecnologia e, come si suol dire, talvolta di elevato target (http://www.wavecom.ch/ ). Tiriamo quindi le somme finali di questo discorso? Se vi fosse qualcuno interessato all’approfondimento degli argomenti in parola, questo post sarebbe una costruttiva proposta di discussione e di aggregazione per l’eventuale futura costituzione di un’associazione scientifico-culturale che si occupi di linguistica-matematica, programmazione, teoria dei giochi, statistica, comunicazioni sicure via etere, ecc.; cioè, come si suole comunemente dire in gergo, di “codici”.

(Post n. 12) Oscillofoni: vegliardi dimenticati?





C’era una volta, durante l’esame per il conseguimento della patente di operatore di stazione radioamatoriale, la prova di lettura e di trasmissione di messaggi in codice morse.
Dato che, prima di aver conseguito il nominativo e la licenza, sarebbe stato illecito trasmettere, come ci si sarebbe potuti preparare a sostenere con successo questa prova d’esame non avendo a portata di mano un ricetrasmettitore cui far produrre soltanto il cosiddetto "side tone"? (v. Post n. 14)
Semplice: ci si allenava utilizzando un classico tasto telegrafico verticale (tipo quello riportato nella foto del Post n. 2) collegato ad un oscillofono, cioè ad un elementare ed economicissimo dispositivo elettrico in grado di emettere un suono mono-tonale ad ogni pigiar di tasto.
Che cosa resta, oggi, degli oscillofoni? Forse ben poco, data l’abrogazione della prova di Morse nel suddetto esame, ma, di preciso, non si potrebbe dire con certezza: il CW è sempre soggetto ad improvvise impennate di moda che talvolta contraddicono anche i più infausti pronostici riguardanti la sua sorte, tuttavia la continua incertezza circa un flusso abbastanza costante di consumo di oscillofoni ha fatto concentrare la loro produzione in poche imprese ed in alcuni stati soltanto, e la loro vendita, perlopiù sotto forma di kit, quasi esclusivamente in pochissimi negozi virtuali su internet.
Personalmente ho iniziato a fare un po’ di allenamento con un tasto verticale MFJ-557 ( http://www.mfjenterprises.com/pictures/MFJ-557.jpg ) che è stato concepito, di fabbrica, in formato monoblocco assieme ad un oscillofono specificamente dedicatogli.
In tal caso nulla da eccepire, ma come avrei potuto allenarmi in altre modalità di manipolazione telegrafica evitando di accendere un apparato radio o di fare un’antiestetica derivazione di fili elettrici da un qualsiasi altro tipo di tasto telegrafico agli elettrodi dell’oscillofono di cui sopra? Per caso sono capitato sul sito http://www.morsex.com/ ed ho acquistato l'oscillofono in kit di cui alla pagina web http://www.mtechnologies.com/ameco/keyosc.htm . Quindi, mano al saldatore e... al lavoro per ottenere un altro piccolo dispositivo di indubbia comodità. H
o detto "altro piccolo", perché, già in precedenza, avevo assemblato un keyer (v. Post n. 14 ) che di certo potrebbe stare entro l'area di un francobollo di dimensioni medie: il PicoKeyer della Noxas:

(Post n. 11) Tuffo, con doppio avvitamento, nel ReLug!





Linux? E’ un bel dire: questo simpatico pinguino, nonostante lo strato di ciccia che gli avvolge i muscoli, ha l’argento vivo addosso: fila come un siluro e sguscia via dalle dita come una saponetta bagnata!
Tuttavia, come al solito, ogni problematica situazione si risolve con l’opportuno approccio razionale al problema. Nel mio piccolo, per agguantare il vivace sistema operativo, già avevo iniziato a familiarizzare con esso da qualche anno mediante l’utilizzo della distribuzione SuSe, ma i “ragazzi” del ReLug ( http://relug.linux.it/
) mi hanno dato qualche buona dritta per aprire le porte del “paradiso degli informatici” e così mi sono trovato a gestire, abbastanza serenamente, le splendide distribuzioni Ubuntu, Kubuntu e Debian. Non senza grattacapi, lo ammetto, ma nemmeno senza soddisfazioni.
Di Linux non mi ritengo un sostenitore ad oltranza, vale a dire che, se da un lato reputo nobilissima e del tutto condivisibile la “causa” dell’open source, da un altro lato non è mia abitudine esaltare il sistema operativo Linux ad assoluto detrimento di altri OS proprio perché ho riscontrato che alcuni programmi che mi servono, attualmente non hanno equivalenti che girano sotto Linux. Debbo anche dire, però, che alcuni programmi che girano sotto Linux sono, secondo me, di gran lunga assai migliori di programmi non open source che girano sotto altri sistemi operativi. Questa è la ragione per cui utilizzo diversi OS a seconda delle mie esigenze e perché sono un fervido sostenitore delle cosiddette virtual-box, cioè di quei programmi che permettono di avviare un sistema operativo in seno ad un altro sistema operativo, come se l’OS contenuto fosse un comune applicativo dell’OS contenitore.
A conclusione di questo post mi sento comunque di consigliare vivamente, a chiunque ne fosse incuriosito, l’utilizzo di Linux senza alcun timore, magari iniziando a familiarizzare con esso su un vecchio PC altrimenti destinato alla discarica dopo l’acquisto di un PC nuovo. Nessun problema se il vecchio PC vi sembrasse troppo obsoleto: mediante la c.d. attività trashware, con Linux si possono recuperare, a funzionalità attuali, anche PC con hardware piuttosto datato, e con LTSP si può far viaggiare in rete come un razzo un vecchio PC dopo averlo trasformato in terminale di un Linux Server allestito su un altro PC, dotato di adeguato e più recente hardware.
Se qualcuno desiderasse entrare maggiormente nei dettagli, mi contatti pure.

[All'inizio di questo post l'immagine di TUX: la mascotte ufficiale del kernel di Linux ( http://it.wikipedia.org/wiki/Tux#cite_note-0 ), la cui immagine è stata creata, con GIMP, da Larry Ewing ( lewing@isc.tamu.edu ) che ne ha autorizzato a chiunque la modifica e l'utilizzo].

giovedì 16 aprile 2009

(Post n. 10) Il corso all’ARI: l’inizio della storia



Qualche anno fa finii, un po’ fuori mano, nella sezione dell’Associazione Radioamatori Italiani sita in Reggio Emilia. Come? Niente di particolare. Qualche settimana prima stavo passeggiando tra gli stand della fiera dell’elettronica della medesima città quando, giunto di fronte al banco dell’Associazione Radioamatori Italiani, vidi una cosa cui non potevo resistere: un apparato wi-fi sperimentale sul quale stava armeggiando un tranquillo signore di nome Claudio. Costui, illustrandomi un po’ di dati tecnici, riuscì poi a catturare la mia attenzione di discente e diventò, di lì a poco, un mio istruttore nel corso di preparazione per il conseguimento, l’anno successivo, della patente di OM.
Non è stato tanto leggero sciropparsi quasi ottanta chilometri, tra andata e ritorno, una sera infrasettimanale per un anno, al fine di seguire, ogni volta, una lezione di due ore, dalle 21 alle 23: dopo certe pesanti giornate di lavoro il surplus di fatica si avvertiva parecchio, ma gli argomenti erano davvero interessanti e le spiegazioni assai chiarificatrici in merito anche ai concetti più complessi, perciò non potevo di certo mancare agli appuntamenti.
Alla fine, i colleghi di corso emiliani hanno sostenuto l’esame a Bologna, mentre io me ne sono andato, da solo, in un gelido mattino di dicembre, a Milano, e tutto, per fortuna o che altro, è filato liscio, per cui, dopo qualche mese, andavo pure io a rintuzzare il numero degli OM italiani utilizzando il mio nominativo di stazione: IZ2LTX, appunto.
La sezione ARI di Reggio Emilia ha un interessante sito web ( http://www.arireggioemilia.org/ ) ed è piuttosto attiva con serate tematiche extra-corsi condotte da ottimi specialisti ed appassionati dei diversi modi di ricezione e trasmissione radio.
Per quanto riguarda poi gli esami e le questioni amministrative radioamatoriali in Lombardia, il sito di riferimento è: http://www.mincomlombardia.it/ .
Chi fosse interessato ad avere qualche uteriore delucidazione su come ottenere la patente di OM mi chieda pure.
(Nella foto: una grande antenna beam posta sulla cima di un traliccio autoportante).

sabato 11 aprile 2009

(Post n. 9) Ginnastica mentale



Tante se ne sono dette su questo tipo di contesa: alcuni hanno parlato di gioco, altri di scienza, altri ancora di arte, ma, alla fine, pare che tutti si siano trovati d’accordo nel dire che gli scacchi, in fondo, sono “soltanto” uno sport. Perché? E' presto detto: del gioco, gli scacchi non hanno di certo la spensieratezza né tantomeno l’alea; della scienza, poi, essi non hanno un campo inesplorato di fronte e certezze alle spalle; infine, dell’arte, gli scacchi non hanno affatto la predilezione per la forma poiché mirano soltanto alla sostanza delle cose, cioè alla vittoria nella lotta di cui sono oggetto. Non resta, quindi, che definirli uno sport cerebrale, cioè qualcosa che impegna la mente in continui ed esasperati sforzi profusi per realizzare un’impeccabile analisi logica di svariati assetti di partita al fine di raggiungere la matematica certezza di agire in modo tale da evitare la sconfitta.
E’ vero, la cosa è incredibilmente buffa: a scacchi si gioca per vincere tuttavia, se la partita fosse condotta in modo impeccabilmente logico da ambo le parti, si giungerebbe soltanto a parità poiché tutto, in essi, è palese. Quindi la verità è che negli scacchi si paga ogni sbadataggine, anche la più lieve; per questo motivo le sconfitte possono facilmente stimolare il desiderio di perfezionarsi.
Di libri interessanti che insegnano a pensare scacchisticamente in modo logico, ne ho visti moltissimi, ma quello che tuttora mi risulta più utile e confortante è “Strategia e Tattica nel gioco degli Scacchi”, di Enrico Paoli: questo testo è di una chiarezza e di una sistematicità, per me, quasi assolute. Comunque, se voleste saperne di più, chiedete pure e, se desideraste provare subito a giocare con qualcuno, penso che http://www.scacchisti.it/ possa essere, per chiunque, un buon inizio.
Nota: nella foto… il tempo (: orologio di partita), lo spazio (: la scacchiera), il materiale (: pedoni e pezzi) … immortalati nella posizione della variante Nimzowitsch della difesa francese, dopo 6. bc.

lunedì 6 aprile 2009

(Post n. 8) Una moralmente doverosa riga di testo

I migliori auguri agli amici OM in questo momento impegnati, dentro e fuori le istituzioni di Protezione Civile, nelle operazioni di soccorso alle popolazioni colpite dal sisma: possa la loro attività contribuire in massimo grado alla buona riuscita dei salvataggi!

(Post n. 7) Miti e mete del mondo custom



Un sospiro di sollievo: ultima rata dell’agognata bicilindrica,… pagata!
Piccola premessa storica: quasi facendo eco al famoso “Il selvaggio”, con cui Marlon Brando, nel 1953, aveva posto sotto i riflettori del cinema il tormentato mondo giovanile del motociclismo cruiser, nel 1969, Peter Fonda, Jack Nicholson e Dennis Hopper, per la regia di quest’ultimo, si cimentarono in un’opera che diventò subito un mito nell’immaginario collettivo: "Easy Rider". Questo film portava agli onori di Hollywood una nuova generazione di bikers: i “vagabondi” su moto chopper, cioè una specie di versione motorizzata dei tipi umani aderenti al movimento hippy.
Da allora ad oggi sono passati molti anni, i miti hanno resistito ma si sono anche “evoluti”, ed i prezzi dei prodotti si sono spesso alzati a causa di molti fattori non escluso quello dei miglioramenti tecnici e del pregio manifatturiero ed artistico, talvolta elevatissimo, dei veicoli: nel mercato del nuovo, per una cruiser si possono attualmente sborsare fino a 30000 euro, mentre per un chopper si vedono volare prezzi che raggiungono e talvolta superano i 40000 euro!
Con molta prudenza sono quindi “entrato nell’ambiente” mediante un “usato-sicuro”: una chopper-cruiser, prodotta qualche anno fa dalla Yamaha in luogo dell’attuale modello Dragstar 1100: la Virago XV 1100, vecchia gloria della casa giapponese dei tre diapason. Si tratta di un veicolo da alcuni definito “bovino”, per stazza, potenza e forma di manubrio, ma, a dispetto di ciò, il suo motore è decisamente elastico e molto generoso. Niente velocità da gara o raffinatezze tecnologiche dell’ultima ora: si tratta di una moto massiccia, così come piace a tutti gli amanti della rude struttura motoristica delle V-Twin: i cilindri hanno grosse teste di ghisa abbondantemente alettate per permettere un raffreddamento esclusivamente ad aria, quindi, quando si va in sosta ed il motore viene spento, lo si sente subito scricchiolare per effetto della diminuzione di volume provocata dal raffreddamento. Insomma, colorando un po’ l’immagine, come si suole fare nell’ambiente, si potrebbe dire che capita anche questo, dopo che si è viaggiato, per un bel tratto di strada, “a cavallo” di una ruggente massa di metallo rovente (: ovviamente facendo bene attenzione a non scottarsi soprattutto certi delicati punti del corpo!).
PS - Un particolare ringraziamento, per tutti gli ottimi consigli tecnici e culturali ricevuti in questo campo, dall’amico Arturo e dai ragazzi dell’XV Custom Club
( http://www.xvcustomclub.it/index2 ) con i quali cerco di condividere, appena posso, divertenti run e raduni di custom. Infatti pare che sia anch’io, ultimamente, un “ragazzo dell’XVCC”.