venerdì 14 agosto 2009

(Post n. 30) Gli “antennati” 1 : HF


Le antenne HF, ovvero il sogno di tutti gli OM e l’incubo dei loro vicini di casa. Non c’è verso di salvarsi dalle grandi dimensioni delle antenne per le alte frequenze: se l’onda radioelettrica ha una certa lunghezza è inevitabile che l’antenna adatta a ricetrasmetterla debba avere, per funzionare al meglio, una lunghezza ad essa proporzionale entro certi limiti minimi. Che questi siano, secondo l’opinione comune dei non addetti ai lavori, un po’ troppo abbondanti per un’antenna, è ormai diventato un tormentone sociale che spesso causa dispute meschine e ridicole le quali, per ragioni di legge, si concludono sempre ed inesorabilmente, in sede giudiziale, allo stesso modo, proprio perché, se la legge permette l’installazione, l’installazione a norma di legge prevale, socialmente, sulla paturnia cha produce ogni illegale opposizione, sia quest’ultima più o meno massiccia.
Le HF fanno anche sudare agli OM sette camice per quanto riguarda la loro installazione, la quale è un vero e proprio impegno di capitale e di fatica.
Ora è venuto il momento di raccontare il mio travaglio interiore in merito a tale argomento.
Se si opta per le economiche antenne filari (siano esse windom o dipoli filari od altro) oppure verticali, non si ha direttività, e quindi si capta un sacco di rumore di fondo in ricezione, non si riesce ad avere sempre un’elevata propagazione d’onda in trasmissione e si necessita di una grande abbondanza di spazio lineare sui tetti oppure di superficie al suolo.
In mancanza di spazio e di altezza opportuni, si possono utilizzare antenne loop (dei veri e propri anelli di dimensioni che non superano qualche metro di diametro
http://www.ciromazzoni.com/Loop%20Antenna.htm ). Queste antenne inusuali e poco vistose, originariamente utilizzate piuttosto massicciamente in ambito militare, funzionano indubbiamente bene in disagiate situazioni di posizionamento e di spazio, ma hanno bisogno, secondo alcuni, di circuiti molto sensibili in ricezione e molto potenti in trasmissione, il che costa tantissimo, sul mercato delle integrazioni circuitali dei ricetrasmettitori di elevata qualità: si sa che i militari non hanno, per definizione, problemi di spesa, un civile privato, invece, solitamente sì.
Se si finisce, quindi, per pensare di installare delle antenne direttive molto performanti, ci si trova, in sostanza, secondo me, di fronte a due opzioni di massima: antenne yagi od antenne cubical quad.
Bisogna subito mettersi l’anima in pace: se non si abita sul grattacielo più alto della città e se non si ha a disposizione il suo terrazzo-tetto di sommità, l’opportuna elevazione di un’antenna yagi per HF costituisce già un bel problema in quanto essa, per essere pienamente operativa, non può stare a meno di complessivi 21 m dal suolo e quindi va per forza collocata a detta altezza sopra un palo od in cima ad un traliccio. Entrambi questi sostegni sono tanto più esponenzialmente costosi quanto più sono alti. Se poi essi fossero autoportanti, i loro prezzi potrebbero diventare da capogiro, per un portafoglio comune; e se addirittura partissero dal suolo, anziché dal tetto, necessiterebbero, in aggiunta, di un progetto da sottoporre a concessione edilizia comunale.
Le antenne yagi sono costituite da una serie di steli orizzontali, paralleli tra loro, sostenuti, a metà della propria lunghezza, da un unico supporto ad essi ortogonale. Per evitare al radioamatore che comunichi su più bande di frequenza l’onere di acquistare tante economiche antenne yagi da piazzare su molti costosi sostegni, disseminati in un ampia area, i produttori di queste antenne hanno creato delle yagi multibanda che, in quanto tali, sono piene zeppe di steli. Ovvio che queste antenne, avendo più corpi di metallo delle loro sorelle monobanda, pesino ben più di queste ultime e quindi debbano essere collocate su sostegni decisamente più robusti. Inoltre gli steli, nel centro delle antenne multibanda, sono così vicini gli uni agli altri, che l’antenna stessa, per essere occasionalmente sottoposta a manutenzione, non può essere montata su tralicci dotati di carrelli ascensore (in quanto gli steli finirebbero, scendendo col carrello a fianco del traliccio, per cozzare rovinosamente contro quest’ultimo) ma soltanto o su tralicci telescopici (cioè autoestensibili), o su tralicci fissi (dai quali, all’occorrenza, far scendere e risalire l’antenna con l’aiuto di un camion dotato di un braccio gru!) o su pali ribaltabili su fianco (i quali necessitano, a tal fine, di poderosi sistemi ad argano).
Gli astuti inventori di una ditta americana produttrice di antenne radioamatoriali di qualità piuttosto elevata (la Steppir
http://www.steppir.com/files/Yagi%20brochure.pdf), per far risparmiare ai radioamatori gli altissimi costi dei sostegni a grosso palo od a traliccio, hanno avuto la brillante idea di costruire delle yagi con steli in tubo di carbonio, dal centro dei quali ed entro i quali far scorrere, mediante motorini elettrici passo-passo, pilotati a distanza da una centralina, i veri steli di metallo dell’antenna, ridotti a sottili strisce traforate, le quali possono essere simmetricamente sbobinate e riavvolte a piacere fino a raggiungere, caso per caso, le distanze esatte alla ricetrasmissione su ogni consentita banda di frequenza. Ciò, non soltanto ha consistentemente alleggerito l’antenna, ma ha anche permesso di ridurne il numero degli steli così da produrre, al centro di essa, un ampio spazio vuoto che ne permette l’elevazione anche con carrelli elevatori di fianco-traliccio. L'equivalente italiana di questa impresa è la Ultrabeam (http://www.ultrabeam.it/).
Manco a dirlo, ovviamente anche queste particolari antenne sono abbastanza costose, sebbene molto meno di un traliccio adatto alle loro equivalenti a steli fissi. Quindi, con un tetto ad almeno dodici metri di altezza dal suolo ed uno spezzone di traliccetto di nove metri, il gioco sarebbe fatto!
Vi sono tuttavia case costruttrici, come la tedesca Titanex, che hanno mirato a sistemi d’antenna misti dal prezzo basso rispetto alla notevolissima resa che, secondo me, se ne trae: antenne cubical quad multibanda a due elementi più un dipolo filare per le bande dai 40 ai 160 m lambda.
(http://www.titanex.de/frames/quads.html)
Naturalmente anche in questo caso non si può avere tutto: la cubical quad è un’antenna molto economica, agevolmente carrellabile in altezza, ed a mio parere ottima nelle ricetrasmissioni su lunghissime distanze, oltre che dotata di una sensibilità ricettiva straordinaria; poi, già a 16-18 m dal suolo, la sua resa è perfetta; però, essa ha un’immensa superficie di esposizione al vento e quindi può andar soggetta a tremendi e talvolta parzialmente distruttivi effetti vela. Oggi, la struttura meccanica di quest’antenna è stata migliorata e rafforzata con sistemi a molla di ammortizzazione della tensione esercitata dal vento sui suoi cavi disposti a tessitura di ragnatela, ma la sua resistenza al vento resta comunque molto elevata, per cui la spesa, che si riduce sul versante dell’altezza del sostegno e sul valore dei materiali, aumenta per converso sostanziosamente dal punto di vista della robustezza strutturale di tale sostegno e del sistema di frenata ammortizzata del rotore, il quale deve quindi essere di elevatissime qualità e robustezza.
Insomma, calcolatrice alla mano, i conti sono lunghi e complicati: sostegni, altezza, struttura, spazi, meteorologia del luogo di installazione, durevolezza dell’investimento, manutenzione, modalità e luogo di acquisto, capire cosa sia veramente conveniente, mantenendo un elevato rapporto qualità prezzo, è un vero tormento!
Alla fine, comunque, mi sono convinto che la soluzione più accettabile, nel caso non si voglia ricorrere ad una abbastanza soddisfacente ma inflazionatissima cushcraft a steli corti e dotati di “strani” cappelli capacitivi alle estremità, sia installare una yagi tipo steppir. Spero di non essermi sbagliato: ai colleghi OM più esperti l’ardua valutazione finale.
[Nella foto l’antenna cubical quad di un collega OM].

domenica 12 luglio 2009

(Post n. 29) Ruota libera (motoaccensioni 2)


Nel Post n. 27 si è accennato al problema della ruota libera. Quest’ultima nacque, in origine, come dispositivo meccanico che permetteva di disaccoppiare il gruppo pignoni dal mozzo della ruota motrice di una bicicletta, al fine di dare al ciclista la possibilità di smettere di pedalare in qualsiasi momento senza che, con ciò, si arrestasse immediatamente il moto della bicicletta (v. http://it.wikipedia.org/wiki/Ruota_libera ).
In una moto vi sono due ruote libere: una, come nelle biciclette, è in corrispondenza del mozzo della ruota posteriore, l’altra, invece, si trova in quella parte del motore che sta nelle immediate vicinanze del pedale (o del motorino) di avviamento. E’ appunto a questa seconda ruota che si riferiva il Post n. 27 trattando delle possibili cause di una difficoltosa o mancata accensione del motore.
La ruota libera, fatta girare dal motorino di avviamento, fa presa sull’albero motore mediante una frizione a cilindretti, soltanto per quella frazione di secondo necessaria a produrre l’accensione, dopodiché, iniziando a girare vorticosamente, tale albero si svincola da essa.
Avveuto un cospicuo numero di accensioni (soprattutto se malfatte), l’ingranaggio della ruota libera, come si dice in gergo, potrebbe “sgranarsi”. Sintomi? Pigiando il pulsante “Start” si sente un rumore di ferraglia che somiglia vagamente a quello di un macinacaffè o di una marcia male ingranata ed il motore tenderebbe sempre più frequentemente a non accendersi. Tuttavia la moto si accenderebbe perfettamente a spinta (cioè ingranando la prima dopo averle fatto raggiungere una certa velocità, magari in una discesa) e questo fatto sarebbe quindi la prova definitiva che il problema di accensione sarebbe da imputare esclusivamente allo “sgranamento” della ruota libera. Ma in che cosa consiste tale fenomeno?
Sostanzialmente nella grave abrasione di cilindretti di metallo che fanno da cuscinetti e da “ingranatori” della ruota libera sull’albero motore entro la frizione della stessa. Ad ogni accensione questi cilindretti subiscono un fulmineo shock rotativo che diventa anche abrasivo nel caso in cui non fossero abbondantemente lubrificati e l’accensione del motore non venisse effettuata correttamente.
Nelle foto riportate al link
http://www.aea.it/tecnodisplay/friends/friends_bikers.htm , “ruota libera”, potete vedere in quale penoso stato questi cilindretti si siano ridotti nella Dragstar 1100 di un mio amico di club (v. anche la descrizione dettagliata della vicenda) e come egli, oltre a farli sostituire con cilindretti nuovi di fucina, abbia anche provveduto a far fare un buco del diametro di 3 mm sul bordo della ruota sulla quale essi scorrono, ed uno di 6 o 7 mm di diametro sull’albero motore, per permettere all’olio motore di fluire più copiosamente su di essi, proprio al fine di evitare l’insorgere del medesimo problema ad un tot di accensioni effettuate dopo tale sostituzione.
Se il problema dello sgranamento dei cilindretti della ruota libera non si fosse ancora manifestato si potrebbero, con modica spesa, effettuare, a livello di prevenzione, i suesposti interventi di perforazione.
Io, naturalmente, non garantisco alcunché in merito a tale “rimedio”, in quanto non lo ho personalmente sperimentato e non vi sono ancora statistiche attendibili per confermarne la piena validità, nonostante l'evidente sensatezza.
Purtroppo, il meccanismo di ruota libera della Virago è ben diverso dall’analogo meccanismo presente sulla Dragstar ( v. il post al link:
http://images.google.it/imgres?imgurl=http://img22.imageshack.us/img22/6102/forze.jpg&imgrefurl=http://www.custommania.com/viewtopic.php%3Fid%3D22674&usg=__cN7SiJnS5H_qijFKHkYUvoqnrz8=&h=480&w=640&sz=59&hl=it&start=1&um=1&tbnid=dhYwcIE3HvDYoM:&tbnh=103&tbnw=137&prev=/images%3Fq%3Druota%2Blibera%2Bvirago%26hl%3Dit%26rlz%3D1T4ADBF_itIT241IT241%26sa%3DN%26um%3D1 ), per cui, se si volesse ottenere un più copioso flusso di lubrificante dalla camera motore, si dovrebbe studiare attentamente o dove forare o se allargare i fori adduttivi di olio già presenti senza provocare pericolosi indebolimenti strutturali. Quindi, per sciogliere questi dubbi mi rimetto ai commenti di chi è più esperto di me.
La comparsa dei sintomi di questo quasi ineffabile difetto è solitamente piuttosto erratica, ma sulla Dragstar 1100 di cui ho parlato sopra, si è verificato a 38.000 km. Tuttavia non si esclude che, a prescindere dal chilometraggio complessivamente percorso dal veicolo, essa possa aversi anche prima, nel caso in cui la moto venisse utilizzata molto di frequente. Per avere una statistica affidabile di tale difetto, bisognerebbe dunque contare il numero di utilizzi del pulsante “start” e la loro durata fino alla prima comparsa dei sintomi in parola. Un’operazione oggettivamente impraticabile, in mancanza di un apposito contatore elettronico di tale evento.
Ad un motociclista veramente attento all’efficienza del proprio mezzo non resterebbe, quindi, che raccogliere informazioni circa gli aggiornamenti migliorativi effettuati nel tempo dalla casa costruttrice sulla ruota libera del proprio modello di moto, e, se occorresse, agire prima possibile al fine di evitare l’insorgenza del problema, anche perché far praticare un foro e fare allargare di qualche millimetro il diametro di un buco già esistente per aumentare la lubrificazione nella camera della ruota libera, è certamente un’operazione assai meno costosa di quella che si sostanzia nella sostituzione di componenti usurati con componenti nuovi. Non si sta parlando di pezzi “pregiati”: per quanto riguarda le Virago, per esempio, ci sono grossisti (soprattutto inglesi) che via internet evadono ordinativi di componenti per ruota libera a prezzi davvero molto bassi. Più che altro il problema economico è dato, come al solito, dal prezzo della manodopera.
La ruota libera delle Virago, come si vede dalle foto del terzo link citato in questo post, comprende una ruota dentata che, purtroppo, non fa da paratia contenitiva del lubrificante, ed una frizione a tre cilindretti, dotata di una copertura che potrebbe andare incontro a slittamenti e deformazioni da surriscaldamento provocando danni.
La mia Virago XV 1100 non è molto lontana dai 38.000 km, è stata immatricolata nel 1999, ma è un modello del 1994: anche i miei amici di club motociclistico non saprebbero esattamente dirmi se i diametri dei punti di passaggio dell’olio motore entro la camera della ruota libera di questo sotto-modello siano già stati ottimizzati dalla casa produttrice al fine di evitare il problema di cui si parla, perciò, attualmente, sto ancora cercando dati utili. Magari, tra 400 km, prenderò coraggio a due mani ed aprirò la copertura laterale sinistra del motore per vedere come è messo questo dispositivo e, comunque, provvedere di conseguenza.
Ovviamente attendo commenti e consigli dai più esperti per migliorare questo post anche da subito.
[All’inizio del post una foto del motorino di avviamento della mia Virago XV 1100, proprio dietro la discesa del tubo di scappamento del cilindro di testa].

(Post n. 28) Telegrafia transmodale ed elettronica



La telegrafia è, notoriamente, una trasposizione, in codice morse, della scrittura di una lingua naturale umana. Ciò vuol dire che, in ambito telegrafico, si potrebbe paragonare un tasto manuale (v. Post n. 2) ad una macchina da scrivere meccanica, un tasto semiautomatico (v. Post. n. 20 ) ad una macchina da scrivere elettrica, ed un tasto automatico (v. Post n. 22) ad un personal computer su cui venga utilizzato un software di videoscrittura. Tuttavia, nel campo dell’elettronica è stato fatto un ulteriore balzo in avanti: sono stati creati dispositivi e programmi i quali sono in grado di “portare” la telegrafia a ricetrasmissioni che non le sono proprie ed a modalità operative apparentemente molto simili a quelle del modo RTTY (: telescrivente).
Come si sa, infatti, il CW è un “modo” di ricetrasmissione ben definito ed ha le proprie bande di frequenza preferenziali prevalentemente nelle onde elettromagnetiche che vanno dai 20 ai 40 m lambda, ma, a voler essere precisi, secondo il Piano Nazionale Ripartizione Frequenze (
http://www.associazioneradioamatoritaliani.it/images/stories/filespdf/Band-PlanOltre30MHz.pdf), lo si può trovare un po’ ovunque, nelle varie bande di frequenza riservate ai radioamatori.
Il fondamentale problema dell’attuale morse radioamatoriale, però, è legato alla più o meno agevole trasportabilità della strumentazione la quale si fa piuttosto ingombrante volendo mantenere ad alti valori i rapporti efficienza/dimensione delle antenne ed efficienza/peso dei ricetrasmettitori. Ecco perché qualcuno, alla MFJ, ben sapendo quanto più pratiche e trasportabili siano le antenne di ridotte dimensioni installate sulle radio palmari che, però, hanno il modo CW soltanto in ascolto, ha messo a punto un particolare dispositivo (
http://www.mfjenterprises.com/pictures/MFJ-552.jpg) che rende questi maneggevolissimi e piccoli apparati in grado di ricetrasmettere “transmodalmente”, con grande chiarezza gli impulsi morse nelle bande di frequenza VHF ed UHF (http://www.mfjenterprises.com/man/pdf/MFJ-552.pdf), ... in fonia, appunto.
Questo strano modo di trasmissione radio del codice morse, anche se per alcuni “orridamente improprio”, mi risulta piuttosto curioso e da studiare insieme ad altri colleghi OM che siano interessati alla massima portabilità degli RTX operanti con tale sistema.
Ma il tentativo di massimo contenimento delle dimensioni di apparati ed antenne per la pratica del morse non finisce qui: altri hanno avuto idee e produzioni interessanti. EI9JQ, per esempio, ha realizzato un trasmettitore CW-sat per i 2 m (
http://www.dxzone.com/cgi-bin/dir/jump2.cgi?ID=12571) e così anche la Kanga US ha realizzato qualcosa di interessante (http://www.kangaus.com/Documentation%20files/2%20m%20CW%20Source%20Documentation.pdf). Infine è da ricordare che la YAESU ha fatto davvero moltissimo, sempre in tal senso, producendo l'ultracompatto e spalleggiabile ricetrasmettitore FT-817, ormai divenuto assai famoso ( http://www.yaesu.it/index.aspx?m=53&did=116 ).
Per quanto riguarda invece i software di ausilio alle comunicazioni radioelettriche in codice morse, va ricordato che esistono programmi, come CWget (
http://www.dxsoft.com/micwget.htm ), in grado di decodificare gli impulsi morse nei corrispondenti simboli alfanumerici, riportando questi ultimi a monitor come se si trattasse di un sistema di comunicazione a telescriventi, e programmi come CWwrite (http://www.dxsoft.com/en/products/cwtype/ ) che servono a trasmettere in codice morse direttamente da una tastiera o da un paddle connessi alla porta LPT di un personal computer. Vi è persino, con Winkeyer Remote Control, la possibilità di pilotare a distanza un RTX con un Winkeyer locale ( http://k1el.tripod.com/WKremote.html ) e vi sono anche sistemi portatili di decodifica automatica dei messaggi in codice morse ( per esempio, della MFJ http://www.mfjenterprises.com/Product.php?productid=MFJ-461 , http://www.mfjenterprises.com/Product.php?productid=MFJ-464 ) o sistemi analoghi perché integrabili con PC laptop, come, per es., quelli di cui al link http://k1el.tripod.com/ , del quale il kit WKUSB è l’oggetto della foto riportata all’inizio di questo post.

domenica 28 giugno 2009

(Post n. 27) Motoaccensioni











Come molti motociclisti di primo pelo, credo di essermi approcciato all’accensione della moto senza particolari timori dopo aver letto il solito “manuale del proprietario”. In questo prontuario si raccomanda di non tener tirata la levetta dello starter (“choke”) per più di X secondi in estate e di X+Y secondi in inverno, avendo poi l’accortezza di lasciar scaldare il motore per Z secondi, prima di partire.
Purtroppo, come forse molti altri miei amici centauri un po’ “spensierati”, non mi sono occupato granché di questo argomento, e quindi mi è bastata la solita spiegazione generale: “levetta choke tenuta tirata oltre i limiti temporali consigliati dalla casa costruttrice del veicolo = eccessivo riscaldamento e conseguente scolorimento delle marmitte, nonché pericolo del fenomeno di scoppi fuori camera di combustione per innesco di fiamma su residui incombusti presenti nei gas di scarico (afterburning)”.
Ebbene, fosse tutto qui non vi sarebbe gran che da considerare, ma non è affatto così: c’è dell’altro eccome!
A motore freddo ho sempre tenuto tirata la levetta choke ai limiti di tempo X d’estate ed X+Y d’inverno nell’eventualità in cui il motore fosse proprio gelato. In quest’ultimo caso non ho mai riscontrato alcunché di anomalo, ma nel periodo estivo, talvolta, si accendeva per breve tempo la spia dell’olio e la cosa non mi piaceva per niente, anche perché, se riuscivo ad evitare questo fatto con un micro rabbocco, dopo appena una decina di avviamenti la spia si accendeva di nuovo e quindi, stante la presenza di guarnizioni a perfetta tenuta, di certo non si poteva imputare la presenza di quell’anomalia ad avarie della spia o ad insufficienza di lubrificante data da logoramento delle fascette raschiaolio dei pistoni, perché i gas di scarico fuoriuscenti dalle marmitte sono sempre stati pulitissimi in quanto del tutto privi di fumi nebulosi. Come si generavano, dunque, quei brevi micro collassi nel sistema di lubrificazione?
Un simpaticissimo amico motociclista dai folti basettoni mi disse: “Attento a non scaldarla troppo all’accensione o si lava il pistone!” oppure “Vedi? … Mica è come nella mia Dragstar: alla Virago gl’han fatto i tubi di raccolta olio… quelli lì…. che van dalle teste dei cilindri alla coppa… troppo stretti, per cui se la scaldi mentre poggia sul cavalletto laterale o se hai un olio un po’ più viscoso della media, la moto ti fa lo scherzetto di farti accendere la spia dell’olio!”.
Dato che l’accensione della spia era fugace dovevo dunque minimizzare la portata dell’evento e trascurare la cosa? No, non mi andava di comportarmi così: volevo capire bene che cosa stesse esattamente accadendo al fine di riuscire a trovare un rimedio.
Cerca che ti ricerca senza successo in Internet, alla fine capitai di fronte ad un vecchio testo di pratica meccanico-motociclistica amatoriale: “La tua moto – Meccanico fai da te – Teoria e pratica” in formato pdf. Testo provvidenziale: lo avessi letto prima di accingermi ad effettuare la prima accensione della mia moto! Ma per fortuna non avevo ancora combinato irrimediabili guai, per cui mi sono subito messo in stato di “salvezza”!
A pag. 55 di quel testo, il paragrafo “Consigli generali” mi ha svelato tre cose interessanti circa l’accensione di una moto:
1) se il veicolo è spento da almeno ventiquattro ore (o anche un po’ meno, se il luogo di stazionamento del veicolo fosse caldo) la vaschetta del carburatore, in cui viene raccolto il carburante proveniente dal serbatoio, potrebbe essersi vuotata a causa dell’evaporazione del carburante stesso. Di conseguenza il motore potrebbe non avviarsi al primo colpo, inducendo così il sospetto di incipienti problemi di ruota libera, in realtà inesistenti.
Per evitare questo inghippo ed il conseguente equivoco appena descritto, il rimedio è semplicissimo: prima dell’accensione inclinare leggermente la moto, per almeno due secondi, sul lato del carburatore al fine di riempirne forzatamente la vaschetta;
2) … “lavaggio dei cilindri” (il famigerato “lavaggio del pistone” cui si è accennato sopra): la levetta “choke” non va affatto intesa come una panacea per ogni avvio, bensì come una necessità dai possibili risvolti pericolosi, in quanto essa determina, all’accensione, un elevato regime di giri, che, a condizioni di olio freddo e miscela più ricca di combustibile, tende a “lavare” via, dalle pareti dei cilindri, quell’utilissima pellicola di olio rimasta su di esse dopo l’ultimo spegnimento del motore, così da produrre una drastica carenza di lubrificazione che può portare al cosiddetto grippaggio, cioè ad una rovinosa abrasione tra cilindri e pistoni con conseguente blocco del motore.
Quindi i limiti temporali di posizione d’apertura della levetta choke andrebbero raggiunti soltanto nel disperato tentativo di mantenere acceso un motore che non volesse tenere i giri al minimo nemmeno con il solo utilizzo dell’acceleratore.
In pratica, tutte le improvvise accensioni estive di spia dell’olio, verificate sulla mia moto appena dopo l’avviamento a freddo ed a choke completamente tirata, erano forse segnali di incipienti microgrippaggi da “lavaggio dei cilindri”?! Meglio non rischiare!
Occhio – mi son detto – : levetta choke tirata, accensione e... se i giri arrivassero subito troppo in alto (: attorno ai 2500), spostare immediatamente la choke fino alla chiusura dello starter cercando al contempo di mantenere acceso al minimo il motore, se questo non tenesse il minimo da sé, con una lievissima tensione sull’acceleratore. La logica è infatti quella di fare avviare un motore freddo mantenendolo (così come fa una centralina elettronica attuale attraverso le informazioni che le giungono dalla sonda lambda) al minor numero possibile di giri e con la miscela meno ricca possibile di carburante, per dar tempo all’olio di scaldarsi e distribuirsi uniformemente prima che l’olio ancora aderente ai cilindri venga “lavato via” dai pistoni.
3) Il famoso tempo Z, oltre il quale non andare per realizzare il giusto riscaldamento, da fermi, del motore di una moto, che senso ha?
Non si sta parlando di moto con radiatori dotati di ventola: si parla di veicoli rudi, con cilindri aventi, quali dissipatori passivi di calore, grosse teste di ghisa alettate. E’ poi il movimento del mezzo che porta, a queste masse roventi, rinfrescanti flussi d’aria. Si è già detto, al Post n. 7, cosa succede a questi motori, quando, dopo averli utilizzati, li si spegne: scricchiolano sonoramente perché, raffreddandosi molto in fretta, si contraggono di volume.
Ora, è ovvio che queste strutture non sono dei monoblocchi, bensì una serie di pezzi di metalli diversi saldamente imbullonati tra loro. Quindi, col passare del tempo, se le escursioni termiche tra stati di quiete e stati di funzionamento fossero eccessive, la struttura andrebbe incontro a cedimenti più rapidi e più gravi.
Non far scaldare al massimo il motore tenendo per lungo tempo accesa la moto da ferma, ma completare tale riscaldamento nel primo tratto del viaggio, procedendo a moderato regime di giri, evita picchi di temperatura e stress meccanici, allungando la vita del veicolo.
[Nella prima foto di questo post, un particolare della mia Virago 1100, lato carburatore; nella seconda foto una fila di custom parcheggiate al Lido Po di Guastalla durante il tredicesimo motoraduno Ride With Pride.]

domenica 21 giugno 2009

(Post n. 26) Cuori in Atlantide

Per leggere una recensione e vedere la locandina: http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=33741

Dal mio punto di vista… Nella vita arriva un momento in cui ogni essere umano si chiede se l’amicizia possa esistere davvero anche tra individui apparentemente molto diversi tra loro, oppure se qualsiasi rapporto sociale sia rigidamente soggetto soltanto alla legge ed alla logica del denaro. In tale circostanza, quindi, ci si trova di fronte ad un grave dilemma: credere che nel cuore umano possa, nonostante le difficoltà e le grandi disillusioni del vivere quotidiano, giacere qualche barlume di innocenza, oppure, per dirla con il Rosseau, capacitarsi del fatto che “lo stato di guerra nasce dallo stato sociale”, cosicché ogni manifestazione di umana bontà debba necessariamente essere considerata come o stupidità o raggiro. La questione non è nuova: si pensi, per esempio, a “L’idiota” di Dostoevskij.
( http://it.wikipedia.org/wiki/L%27idiota_(Dostoevskij) ).
La storia narrata dal film “Cuori in Atlantide” mette di nuovo, ma in modo più compassato ed indiretto, il dito in questa piaga (che poi, come ben si sa, è il problema della resa dell’animo al cinismo ed alla paura dell’ignoto) lanciando una sfida di fede allo spettatore. Penso che, almeno per amor proprio e dei propri cari, si possa cercare di coglierla nel tentativo di vivere una vita migliore.
Questa, al di là del tema emergente come principale, mi pare l’essenza della storia: se qualcuno avesse scorto altro, ben felice di ampliare il mio angolo visuale.

(Post n. 25) Grafologia? Vediamo…


Nel Post n. 13 si è enunciato il concetto di pseudoscienza. Ebbene, eccone un altro esempio: la grafologia vorrebbe essere quella branca della psicologia che ha come oggetto l’individuazione della personalità di un essere umano attraverso l’analisi grafometrica della sua libera (cioè non del tutto costretta entro un artistico canone formale) calligrafia. Si dà il caso, però, che non esistano ancora norme per la costituzione di un ordine dei grafologi. Ciò perché non è stata ancora ritenuta scientificamente attendibile alcuna teoria grafologica anche se in ambito forense vengono ammesse, con estrema cautela, analisi grafometriche comparative del tratto calligrafico nel contesto di indagini volte a stabilire la paternità di una firma o di un documento manoscritto.
(http://www.overlex.com/stampa.asp?id=1904&txttabella=articoli)
Una cosa abbastanza buffa è poi l’insorgere di un equivoco in ambito attrezzistico: il grafometro è, tanto un attrezzo marinaresco utilizzato per effettuare rilevamenti topografici quanto uno strumento (strutturalmente del tutto diverso) utilizzato in grafologia per misurare e classificare le diverse calligrafie.
Dato che mi sono interessato alla calligrafia come fenomeno grafico creativo di simboli, prima che come forma d’arte, non potevo di certo lasciarmi sfuggire, sempre nell’ambito di quest’ottica, le oggettive classificazioni grafometriche della grafologia. Queste, infatti, sono indubbiamente di ordine grafico, prima che psicologico, e quindi, inerendo sempre al fenomeno della riconoscibilità della scrittura, sono in grado di misurare chiaramente fino a che punto possano spingersi le forme reali (allografi) mantenendo comunque la propria capacità evocativa delle forme ideali (grafemi)… e, magari, non soltanto questo: chissà cos’altro potrebbe emergere, di realmente oggettivo e quindi non opinabile, a seguito di una più approfondita analisi statistica. Ma ovviamente, per effettuare queste valutazioni avrei bisogno di confrontare tantissimi campioni in un mondo, in cui, purtroppo, ormai si digita tantissimo, si firma manualmente ancora abbastanza di frequente e si scrive con carta e penna sempre di meno e sempre più raramente.
In pratica mi vergogno quasi a chiedere aiuto a chi abbia voglia di inviarmi qualche campione calligrafico scannerizzato ma… sinceramente, non vedo altra soluzione.
Grazie in anticipo a chi avrà occasione e buona volontà al riguardo.

La foto all’inizio di questo post deriva dalla scannerizzazione di un campione di simulata “graficomania”, che ho realizzato con una biro Bic Z4 Roller Black 0.5 mm (uno strumento che ritengo ideale, per esperimenti di questo genere). In pratica, piazzandomi di fronte ad un foglio bianco, ho recitato la parte di una persona che scrive, senza, in realtà, scrivere alcunché.
Il vocabolo testé citato tra virgolette deve intendersi come equivalente, in campo grafico, del vocabolo “glossomania”, il quale riguarda, invece, questioni puramente verbali. Infatti, come un malato mentale affetto da sindrome glossomaniacale utilizza il proprio apparato fonatorio per emettere sequenze di sillabe senza senso e senza regole sintattiche definite, ma articolate con un ritmo ed una cadenza tali da far intendere a chi lo ascoltasse che egli stia parlando una lingua sconosciuta, dei semplici ghirigori, aventi dimensioni simili a quelle di vocaboli vergati su di un foglio come per costituire un manoscritto, possono sembrare un qualche tipo di scrittura: una stenografia, la scrittura di una lingua morta od un codice segreto.
Chiusura del post con provocazione: ma se ci si mette, con carta e penna, a simulare la scrittura, quello che si ottiene, non essendo allografo, potrebbe mai essere il famoso “tratto calligrafico personale” allo stato puro?

(Post n. 24) Classiche palette “supreme”


Ecco qui due paddle classici (: cioè con ritorno a molla anziché a magnete) che, a detta di tantissimi telegrafisti di diverse nazioni, si contendono il primato dell’eccellenza meccanica in fatto di sensibilità e reattività al tocco dell’operatore. Uno scontro tra titani, insomma.
Da un lato un massiccio extra-lusso lombardo: il paddle Simplex che è uno dei tanti magnifici prodotti del collega bresciano I2RTF: http://www.i2rtf.com/html/keys_paddles.html ; dall’altro una intramontabile leggenda teutonica: l’ultra preciso e raffinatissimo Profi 2 della, ahimé, ormai cessata Shurr Morsetasten (http://www.dl0bn.de/schurr/ ) comunque degnamente “confluita” nella Scheunemann Morsetasten (http://www.scheunemann-morsetasten.de/ ).
Difficile davvero, per me, paragonare due espressioni dell’ottimo come queste, ma, con estremo rispetto per entrambe, posso provarci partendo, innanzitutto, da importanti dati oggettivi.
Considero, per iniziare, il fattore stabilità durante l’uso: il peso dei due tasti è, rispettivamente, di 1191 e 1431 g, relativamente a superfici di ingombro di circa 7,70 x 7,70 cm. per il Simplex e di 10,00 x 8,00 cm. per il Profi 2; quattro gommini d’appoggio per il primo paddle e tre per il secondo. Su di una superficie di formica opaca mi ci sono rispettivamente voluti circa 201 e 377 g di spinta esercitati su una delle due palette per spostare lateralmente ciascuno dei due paddle.
Ora vediamo la diteggiatura. Si può iniziare dicendo che il Simplex è un tasto a maggior tensione di paletta, infatti esso ha una molla di tensione di 1,40 cm per ogni leva ed una distanza paletta-fulcro di 7,0 cm, mentre il Profi 2 ha soltanto una molla di tensione di 0,40 cm (con regolazione laterale a destra, circa a parità di diametro e di distanza tra le spire) ed una distanza paletta-fulcro di 5,70 cm.. Molto significativa, secondo me, la distanza tra le palette: 1,90 cm nel Simplex, 1,30 cm nel Profi 2. Il che mi induce a pensare che Begali, con tale maggiore ampiezza, abbia voluto indurre nell’operatore una diteggiatura ad esclusivo movimento di dita per far diminuire le spinte destabilizzanti laterali, mentre Shurr abbia pensato di strizzare un occhio anche ad un certo gioco pesante di polso, tipico degli operatori provenienti dall’utilizzo di side-swiper o di single-lever key. Ciò, secondo me, spiegherebbe anche la tradizionale maggior cedevolezza, al tatto, delle palette del Profi 2 e la loro regolazione di base a movimento un po’ “piacevolmente ampio” per un paddle moderno, mentre, il Simplex ha, di base, una regolazione micrometrica dei contatti (tralaltro in oro!) esasperatamente stretta e quindi propria di un attrezzo fatto per correre a suon di lievissime e nervose carezze dei polpastrelli. L’opinione che mi sono fatto su questi due prodotti è quindi quella che il Simplex sia uno scalpitante tasto "da corsa", mentre il Profi 2 sia un piacevolissimo tasto "da passeggio".