domenica 28 giugno 2009

(Post n. 27) Motoaccensioni











Come molti motociclisti di primo pelo, credo di essermi approcciato all’accensione della moto senza particolari timori dopo aver letto il solito “manuale del proprietario”. In questo prontuario si raccomanda di non tener tirata la levetta dello starter (“choke”) per più di X secondi in estate e di X+Y secondi in inverno, avendo poi l’accortezza di lasciar scaldare il motore per Z secondi, prima di partire.
Purtroppo, come forse molti altri miei amici centauri un po’ “spensierati”, non mi sono occupato granché di questo argomento, e quindi mi è bastata la solita spiegazione generale: “levetta choke tenuta tirata oltre i limiti temporali consigliati dalla casa costruttrice del veicolo = eccessivo riscaldamento e conseguente scolorimento delle marmitte, nonché pericolo del fenomeno di scoppi fuori camera di combustione per innesco di fiamma su residui incombusti presenti nei gas di scarico (afterburning)”.
Ebbene, fosse tutto qui non vi sarebbe gran che da considerare, ma non è affatto così: c’è dell’altro eccome!
A motore freddo ho sempre tenuto tirata la levetta choke ai limiti di tempo X d’estate ed X+Y d’inverno nell’eventualità in cui il motore fosse proprio gelato. In quest’ultimo caso non ho mai riscontrato alcunché di anomalo, ma nel periodo estivo, talvolta, si accendeva per breve tempo la spia dell’olio e la cosa non mi piaceva per niente, anche perché, se riuscivo ad evitare questo fatto con un micro rabbocco, dopo appena una decina di avviamenti la spia si accendeva di nuovo e quindi, stante la presenza di guarnizioni a perfetta tenuta, di certo non si poteva imputare la presenza di quell’anomalia ad avarie della spia o ad insufficienza di lubrificante data da logoramento delle fascette raschiaolio dei pistoni, perché i gas di scarico fuoriuscenti dalle marmitte sono sempre stati pulitissimi in quanto del tutto privi di fumi nebulosi. Come si generavano, dunque, quei brevi micro collassi nel sistema di lubrificazione?
Un simpaticissimo amico motociclista dai folti basettoni mi disse: “Attento a non scaldarla troppo all’accensione o si lava il pistone!” oppure “Vedi? … Mica è come nella mia Dragstar: alla Virago gl’han fatto i tubi di raccolta olio… quelli lì…. che van dalle teste dei cilindri alla coppa… troppo stretti, per cui se la scaldi mentre poggia sul cavalletto laterale o se hai un olio un po’ più viscoso della media, la moto ti fa lo scherzetto di farti accendere la spia dell’olio!”.
Dato che l’accensione della spia era fugace dovevo dunque minimizzare la portata dell’evento e trascurare la cosa? No, non mi andava di comportarmi così: volevo capire bene che cosa stesse esattamente accadendo al fine di riuscire a trovare un rimedio.
Cerca che ti ricerca senza successo in Internet, alla fine capitai di fronte ad un vecchio testo di pratica meccanico-motociclistica amatoriale: “La tua moto – Meccanico fai da te – Teoria e pratica” in formato pdf. Testo provvidenziale: lo avessi letto prima di accingermi ad effettuare la prima accensione della mia moto! Ma per fortuna non avevo ancora combinato irrimediabili guai, per cui mi sono subito messo in stato di “salvezza”!
A pag. 55 di quel testo, il paragrafo “Consigli generali” mi ha svelato tre cose interessanti circa l’accensione di una moto:
1) se il veicolo è spento da almeno ventiquattro ore (o anche un po’ meno, se il luogo di stazionamento del veicolo fosse caldo) la vaschetta del carburatore, in cui viene raccolto il carburante proveniente dal serbatoio, potrebbe essersi vuotata a causa dell’evaporazione del carburante stesso. Di conseguenza il motore potrebbe non avviarsi al primo colpo, inducendo così il sospetto di incipienti problemi di ruota libera, in realtà inesistenti.
Per evitare questo inghippo ed il conseguente equivoco appena descritto, il rimedio è semplicissimo: prima dell’accensione inclinare leggermente la moto, per almeno due secondi, sul lato del carburatore al fine di riempirne forzatamente la vaschetta;
2) … “lavaggio dei cilindri” (il famigerato “lavaggio del pistone” cui si è accennato sopra): la levetta “choke” non va affatto intesa come una panacea per ogni avvio, bensì come una necessità dai possibili risvolti pericolosi, in quanto essa determina, all’accensione, un elevato regime di giri, che, a condizioni di olio freddo e miscela più ricca di combustibile, tende a “lavare” via, dalle pareti dei cilindri, quell’utilissima pellicola di olio rimasta su di esse dopo l’ultimo spegnimento del motore, così da produrre una drastica carenza di lubrificazione che può portare al cosiddetto grippaggio, cioè ad una rovinosa abrasione tra cilindri e pistoni con conseguente blocco del motore.
Quindi i limiti temporali di posizione d’apertura della levetta choke andrebbero raggiunti soltanto nel disperato tentativo di mantenere acceso un motore che non volesse tenere i giri al minimo nemmeno con il solo utilizzo dell’acceleratore.
In pratica, tutte le improvvise accensioni estive di spia dell’olio, verificate sulla mia moto appena dopo l’avviamento a freddo ed a choke completamente tirata, erano forse segnali di incipienti microgrippaggi da “lavaggio dei cilindri”?! Meglio non rischiare!
Occhio – mi son detto – : levetta choke tirata, accensione e... se i giri arrivassero subito troppo in alto (: attorno ai 2500), spostare immediatamente la choke fino alla chiusura dello starter cercando al contempo di mantenere acceso al minimo il motore, se questo non tenesse il minimo da sé, con una lievissima tensione sull’acceleratore. La logica è infatti quella di fare avviare un motore freddo mantenendolo (così come fa una centralina elettronica attuale attraverso le informazioni che le giungono dalla sonda lambda) al minor numero possibile di giri e con la miscela meno ricca possibile di carburante, per dar tempo all’olio di scaldarsi e distribuirsi uniformemente prima che l’olio ancora aderente ai cilindri venga “lavato via” dai pistoni.
3) Il famoso tempo Z, oltre il quale non andare per realizzare il giusto riscaldamento, da fermi, del motore di una moto, che senso ha?
Non si sta parlando di moto con radiatori dotati di ventola: si parla di veicoli rudi, con cilindri aventi, quali dissipatori passivi di calore, grosse teste di ghisa alettate. E’ poi il movimento del mezzo che porta, a queste masse roventi, rinfrescanti flussi d’aria. Si è già detto, al Post n. 7, cosa succede a questi motori, quando, dopo averli utilizzati, li si spegne: scricchiolano sonoramente perché, raffreddandosi molto in fretta, si contraggono di volume.
Ora, è ovvio che queste strutture non sono dei monoblocchi, bensì una serie di pezzi di metalli diversi saldamente imbullonati tra loro. Quindi, col passare del tempo, se le escursioni termiche tra stati di quiete e stati di funzionamento fossero eccessive, la struttura andrebbe incontro a cedimenti più rapidi e più gravi.
Non far scaldare al massimo il motore tenendo per lungo tempo accesa la moto da ferma, ma completare tale riscaldamento nel primo tratto del viaggio, procedendo a moderato regime di giri, evita picchi di temperatura e stress meccanici, allungando la vita del veicolo.
[Nella prima foto di questo post, un particolare della mia Virago 1100, lato carburatore; nella seconda foto una fila di custom parcheggiate al Lido Po di Guastalla durante il tredicesimo motoraduno Ride With Pride.]

domenica 21 giugno 2009

(Post n. 26) Cuori in Atlantide

Per leggere una recensione e vedere la locandina: http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=33741

Dal mio punto di vista… Nella vita arriva un momento in cui ogni essere umano si chiede se l’amicizia possa esistere davvero anche tra individui apparentemente molto diversi tra loro, oppure se qualsiasi rapporto sociale sia rigidamente soggetto soltanto alla legge ed alla logica del denaro. In tale circostanza, quindi, ci si trova di fronte ad un grave dilemma: credere che nel cuore umano possa, nonostante le difficoltà e le grandi disillusioni del vivere quotidiano, giacere qualche barlume di innocenza, oppure, per dirla con il Rosseau, capacitarsi del fatto che “lo stato di guerra nasce dallo stato sociale”, cosicché ogni manifestazione di umana bontà debba necessariamente essere considerata come o stupidità o raggiro. La questione non è nuova: si pensi, per esempio, a “L’idiota” di Dostoevskij.
( http://it.wikipedia.org/wiki/L%27idiota_(Dostoevskij) ).
La storia narrata dal film “Cuori in Atlantide” mette di nuovo, ma in modo più compassato ed indiretto, il dito in questa piaga (che poi, come ben si sa, è il problema della resa dell’animo al cinismo ed alla paura dell’ignoto) lanciando una sfida di fede allo spettatore. Penso che, almeno per amor proprio e dei propri cari, si possa cercare di coglierla nel tentativo di vivere una vita migliore.
Questa, al di là del tema emergente come principale, mi pare l’essenza della storia: se qualcuno avesse scorto altro, ben felice di ampliare il mio angolo visuale.

(Post n. 25) Grafologia? Vediamo…


Nel Post n. 13 si è enunciato il concetto di pseudoscienza. Ebbene, eccone un altro esempio: la grafologia vorrebbe essere quella branca della psicologia che ha come oggetto l’individuazione della personalità di un essere umano attraverso l’analisi grafometrica della sua libera (cioè non del tutto costretta entro un artistico canone formale) calligrafia. Si dà il caso, però, che non esistano ancora norme per la costituzione di un ordine dei grafologi. Ciò perché non è stata ancora ritenuta scientificamente attendibile alcuna teoria grafologica anche se in ambito forense vengono ammesse, con estrema cautela, analisi grafometriche comparative del tratto calligrafico nel contesto di indagini volte a stabilire la paternità di una firma o di un documento manoscritto.
(http://www.overlex.com/stampa.asp?id=1904&txttabella=articoli)
Una cosa abbastanza buffa è poi l’insorgere di un equivoco in ambito attrezzistico: il grafometro è, tanto un attrezzo marinaresco utilizzato per effettuare rilevamenti topografici quanto uno strumento (strutturalmente del tutto diverso) utilizzato in grafologia per misurare e classificare le diverse calligrafie.
Dato che mi sono interessato alla calligrafia come fenomeno grafico creativo di simboli, prima che come forma d’arte, non potevo di certo lasciarmi sfuggire, sempre nell’ambito di quest’ottica, le oggettive classificazioni grafometriche della grafologia. Queste, infatti, sono indubbiamente di ordine grafico, prima che psicologico, e quindi, inerendo sempre al fenomeno della riconoscibilità della scrittura, sono in grado di misurare chiaramente fino a che punto possano spingersi le forme reali (allografi) mantenendo comunque la propria capacità evocativa delle forme ideali (grafemi)… e, magari, non soltanto questo: chissà cos’altro potrebbe emergere, di realmente oggettivo e quindi non opinabile, a seguito di una più approfondita analisi statistica. Ma ovviamente, per effettuare queste valutazioni avrei bisogno di confrontare tantissimi campioni in un mondo, in cui, purtroppo, ormai si digita tantissimo, si firma manualmente ancora abbastanza di frequente e si scrive con carta e penna sempre di meno e sempre più raramente.
In pratica mi vergogno quasi a chiedere aiuto a chi abbia voglia di inviarmi qualche campione calligrafico scannerizzato ma… sinceramente, non vedo altra soluzione.
Grazie in anticipo a chi avrà occasione e buona volontà al riguardo.

La foto all’inizio di questo post deriva dalla scannerizzazione di un campione di simulata “graficomania”, che ho realizzato con una biro Bic Z4 Roller Black 0.5 mm (uno strumento che ritengo ideale, per esperimenti di questo genere). In pratica, piazzandomi di fronte ad un foglio bianco, ho recitato la parte di una persona che scrive, senza, in realtà, scrivere alcunché.
Il vocabolo testé citato tra virgolette deve intendersi come equivalente, in campo grafico, del vocabolo “glossomania”, il quale riguarda, invece, questioni puramente verbali. Infatti, come un malato mentale affetto da sindrome glossomaniacale utilizza il proprio apparato fonatorio per emettere sequenze di sillabe senza senso e senza regole sintattiche definite, ma articolate con un ritmo ed una cadenza tali da far intendere a chi lo ascoltasse che egli stia parlando una lingua sconosciuta, dei semplici ghirigori, aventi dimensioni simili a quelle di vocaboli vergati su di un foglio come per costituire un manoscritto, possono sembrare un qualche tipo di scrittura: una stenografia, la scrittura di una lingua morta od un codice segreto.
Chiusura del post con provocazione: ma se ci si mette, con carta e penna, a simulare la scrittura, quello che si ottiene, non essendo allografo, potrebbe mai essere il famoso “tratto calligrafico personale” allo stato puro?

(Post n. 24) Classiche palette “supreme”


Ecco qui due paddle classici (: cioè con ritorno a molla anziché a magnete) che, a detta di tantissimi telegrafisti di diverse nazioni, si contendono il primato dell’eccellenza meccanica in fatto di sensibilità e reattività al tocco dell’operatore. Uno scontro tra titani, insomma.
Da un lato un massiccio extra-lusso lombardo: il paddle Simplex che è uno dei tanti magnifici prodotti del collega bresciano I2RTF: http://www.i2rtf.com/html/keys_paddles.html ; dall’altro una intramontabile leggenda teutonica: l’ultra preciso e raffinatissimo Profi 2 della, ahimé, ormai cessata Shurr Morsetasten (http://www.dl0bn.de/schurr/ ) comunque degnamente “confluita” nella Scheunemann Morsetasten (http://www.scheunemann-morsetasten.de/ ).
Difficile davvero, per me, paragonare due espressioni dell’ottimo come queste, ma, con estremo rispetto per entrambe, posso provarci partendo, innanzitutto, da importanti dati oggettivi.
Considero, per iniziare, il fattore stabilità durante l’uso: il peso dei due tasti è, rispettivamente, di 1191 e 1431 g, relativamente a superfici di ingombro di circa 7,70 x 7,70 cm. per il Simplex e di 10,00 x 8,00 cm. per il Profi 2; quattro gommini d’appoggio per il primo paddle e tre per il secondo. Su di una superficie di formica opaca mi ci sono rispettivamente voluti circa 201 e 377 g di spinta esercitati su una delle due palette per spostare lateralmente ciascuno dei due paddle.
Ora vediamo la diteggiatura. Si può iniziare dicendo che il Simplex è un tasto a maggior tensione di paletta, infatti esso ha una molla di tensione di 1,40 cm per ogni leva ed una distanza paletta-fulcro di 7,0 cm, mentre il Profi 2 ha soltanto una molla di tensione di 0,40 cm (con regolazione laterale a destra, circa a parità di diametro e di distanza tra le spire) ed una distanza paletta-fulcro di 5,70 cm.. Molto significativa, secondo me, la distanza tra le palette: 1,90 cm nel Simplex, 1,30 cm nel Profi 2. Il che mi induce a pensare che Begali, con tale maggiore ampiezza, abbia voluto indurre nell’operatore una diteggiatura ad esclusivo movimento di dita per far diminuire le spinte destabilizzanti laterali, mentre Shurr abbia pensato di strizzare un occhio anche ad un certo gioco pesante di polso, tipico degli operatori provenienti dall’utilizzo di side-swiper o di single-lever key. Ciò, secondo me, spiegherebbe anche la tradizionale maggior cedevolezza, al tatto, delle palette del Profi 2 e la loro regolazione di base a movimento un po’ “piacevolmente ampio” per un paddle moderno, mentre, il Simplex ha, di base, una regolazione micrometrica dei contatti (tralaltro in oro!) esasperatamente stretta e quindi propria di un attrezzo fatto per correre a suon di lievissime e nervose carezze dei polpastrelli. L’opinione che mi sono fatto su questi due prodotti è quindi quella che il Simplex sia uno scalpitante tasto "da corsa", mentre il Profi 2 sia un piacevolissimo tasto "da passeggio".

giovedì 11 giugno 2009

(Post n. 23) La neve nel cuore

Per leggere una recensione e vedere la locandina:
http://it.movies.yahoo.com/l/la-neve-nel-cuore/index-148084.html

Dal mio punto di vista… Devo dire che ho trovato, in giro per la rete, molti pareri al vetriolo sulla storia narrata da questo film, per cui sono andato a cercare il link con la recensione che mi sembrava più scarna e neutrale.
La spinosa questione ricorrente nei commenti più “piccati” è quasi sempre la stessa: scarsa credibilità della psicologia dei personaggi e loro conseguente comportamento piuttosto assurdo in quanto talvolta in radicale ed inspiegabile contrasto con le qualità morali ed intellettuali ad essi attribuite in premessa.
A mio modesto parere le cose stanno diversamente: l’autore ha sfidato, appunto sul filo dello stridente assurdo in parola, lo spettatore, facendogli così notare come la serietà dei sentimenti di persone tutte fondamentalmente inclini al bene, possa, in momenti di crisi, alterare i comportamenti facendoli delirare nei soggetti più morigerati e diventare, per converso, più razionali in quelli che invece sembrano essere individui stravaganti.
Questi ultimi, meno legati al peso psicologico degli stereotipi sociali, pare che siano infatti più duttili nel gestire per il verso più efficacemente costruttivo i momenti di grave sconforto e conflitto nei quali, del resto, anche il destino, alla fine, viene in qualche modo spronato a far emergere buone occasioni che non saranno sciupate da alcuno.
Credo, insomma, che, sotto la scorza di innocue, strane, frivole o paradossali apparenze, si sia di fronte ad una pregevole opera di narrativa.
Questa, al di là del tema emergente come principale, mi pare l’essenza della storia: se qualcuno avesse scorto altro, ben felice di ampliare il mio angolo visuale.

(Post n. 22) Tasti telegrafici automatici



Già nel Post n. 14 si è parlato del raro tasto telegrafico, a due bracci oscillanti, Meleahan-Valiant. Ebbene, fu questo tipo di tasto il primo tasto telegrafico automatico a comparire sul mercato dopo i bug dei quali si è parlato nei Post nn. 4 e 20. Con esso iniziò, quindi, la fine di un’era: quella in cui la durata degli impulsi morse veniva totalmente o parzialmente determinata dal telegrafista durante la digitazione.
Cosa resta, dunque, come attuale retaggio di questo tasto automatico interamente meccanico? Ecco che cosa ho trovato, finora:
http://www.mtechnologies.com/ghd/gn907.jpg (tradizionale) e
http://www.mtechnologies.com/ghd/gn907ap.jpg (addirittura con sensore ottico!)
della giapponese GHD (
http://www.mtechnologies.com/ghd/ ) del collega JA7GHD;
http://www.webalice.it/crapellavittorio/ik1ojm/frame.html (voce: "doppio vibro")
del collega IK1OJM il quale sostiene che il Meleahan-Valiant non ebbe seguito a causa di un problema strutturale, tipico peraltro di tutti i tasti telegrafici automatici meccanici (o doppi bug): la grave difficoltà di riproduzione, su queste macchine, della codifica morse delle lettere C, K ed Y. Penso che IK1OJM alluda alla non fulminea reattività e non perfetta regolarità pendolare del plesso oscillante di qualsiasi bug, cioè a quei medesimi limiti meccanici che han fatto desistere gli inventori dal promuovere l’utilizzo di un doppio bug che fosse a due palette indipendenti.
Ovviamente i colleghi OM sono sempre invitati a darmi notizie, consigli, ragguagli, ed a discutere costruttivamente in merito a queste cose curiose.

Nella foto sopra riportata si vedono un “single lever key” della Kent (l’ho costruito qualche anno fa dal relativo kit di montaggio) ed un modello base del famosissimo paddle della Bencher, appoggiati sopra un datato ma interessante keyer della MFJ: il Deluxe Electronic Keyer modello MFJ-407C, il quale, a differenza di molti altri keyer, non ha soltanto il potenziometro per la regolazione della velocità di produzione degli impulsi morse, ma anche i potenziometri per la regolazione del volume, del tono e perfino del peso, vale a dire del rapporto esistente tra le due diverse durate dei due tipi di impulsi morse, al fine di conferire un sensibile tocco personalizzante alla digitazione del messaggio così che esso risulti subito riconoscibile, come lo sarebbe in fonia un certo timbro di voce, in mezzo a tutte le altre trasmissioni di un certo pile-up, cioè di una comunicazione affollata per la presenza di parecchi interventi trasmissivi di molti operatori.
Ovviamente esiste, sulla plancia di questo keyer, anche un tasto per la selezione dei modi semiautomatico ed automatico, ed un tasto tune per effettuare l’accordatura.
Per i non OM, si precisa che la foto in parola illustra anche l’ultima storica fase tecnico-evolutiva dei tasti telegrafici: prima il tasto orizzontale a braccio singolo (o "single lever key", strutturalmente piuttosto simile al side-swiper ma elettricamente del tutto diverso da esso) sostituì, in tandem con il relativo keyer, il doppio bug, poi giunse l’era attuale, cioè quella del tasto orizzontale a palette, ovvero, come detto, del paddle.
In alcune delle attuali produzioni di quest’ultimo strumento, meccanicamente davvero assai semplice, è stata posta estrema cura per i dettagli riguardanti il design, la qualità dei materiali, nonché la precisione e la sensibilità dei meccanismi. Ne sono quindi scaturiti dei paddle piuttosto famosi degni ovviamente di keyer dalle elevate prestazioni e di pregevole qualità.

domenica 7 giugno 2009

(Post n. 21) Grammatologia


Oggetto: perché tengo sotto mano il saggio dal titolo “Della grammatologia” di Jacques Derrida – ISBN 88-16-40442-6 ?

Per chi volesse leggere due interessanti ma piuttosto impegnative recensioni di quest'opera consiglio i link:
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/filosofi/schedeopere/derrida.htm ,
http://www.sciacchitano.it/Oggetti/cose%20epistemiche.pdf

Ma ora veniamo all’esperienza personale.
Quando si dice “E’ un discorso lungo e complicato!” forse ci si dimentica che la sintesi, pur essendo spesso un po’ criptica, può comunque stimolare l’intuito umano a comprendere meglio come approcciarsi panoramicamente ai problemi nel tentativo di trovare soluzioni efficaci a ben determinate questioni contingenti. Ad ognuno poi, nel proprio intimo, spetta capire, dal rapporto tra profondità e prolissità riscontrate in un testo estremamente dettagliato come quello cui si riferisce questo post, quale sia l’effettivo livello di utilità pratica ricavabile da un tal tipo di lettura.
Come ogni dovizioso saggio che si rispetti, “Della grammatologia” è un gigantesco serbatoio di pensieri che, approcciando da una miriade di ottiche diverse il tema della funzione e del livello di funzionalità proprie di qualsiasi scrittura sia stata inventata dal genere umano, cerca di andare oltre i confini della semiotica tradizionale nel tentativo di portare alla luce i residui dettagli, ancora misteriosi, di alcuni meccanismi profondi che governano le relazioni tra pensiero, linguaggio e scrittura.
E’ questa tutta la sintesi (alla quale ho accennato all’inizio del post) che sono in grado di fornire riguardo al contenuto di quest’opera cui talvolta ricorro al fine di trovare ispirazione per costruttivi spunti polemici interiori quando mi capita di cozzare contro qualche paralizzante paradosso nella lettura di altri testi assai più tecnici… e talvolta, lo confesso, il “giochetto” funziona!

Il grafema all’inizio del post è quello della fehu: la prima lettera del fuÞark arcaico, ovvero dell’alfabeto runico più risalente che si conosca. Ho scelto questa immagine perché essa ricorda un evento unico nella storia della scrittura: la rideterminazione dell’ordine lessicografico negli alfabeti nord-italici.
Curiosità: per chi non lo sapesse, attualmente i reperti più promettenti per determinare le origini dell’alfabeto runico sono emersi da iscrizioni ritrovate in uno scavo archeologico tra i monti di Auronzo di Cadore, nel Bellunese.

mercoledì 3 giugno 2009

(Post n. 20) I bug della Vibroplex


Gli OM appassionati di telegrafia forse sanno già tutto riguardo all’argomento che si sta per trattare, gli altri, invece, farebbero forse bene ad essere invogliati a proseguire nella lettura di questo post perché si sta per presentare un vero e proprio mito tra i tasti telegrafici orizzontali: i bug della Vibroplex. Già qualcosa al riguardo è stata anticipata nel Post n. 4, ma qui si illustrano gli storici passaggi tecnico evolutivi che hanno portato alla creazione di questi bug e ci si compiace un po’ nell’allestimento di qualche scarna ma essenziale classificazione.
I tasti telegrafici manuali sono stati già visti: quello verticale nel Post n. 2, quello orizzontale detto side-swiper nel Post n. 14. Pigiati, questi tasti trasmettono un impulso morse senza soluzione di continutà fintantoché non vengono rilasciati. Allora essi cessano la trasmissione per effetto di molle o magneti permanenti che riportano il loro braccio mobile all’iniziale posizione di “riposo”.
Con l’intento di defaticare muscolarmente i telegrafisti, costretti, con i tasti manuali, a dosare uno per uno tutti gli impulsi morse e la loro relativa durata fino ad essere spesso vittime di dolorosi e paralizzanti crampi (fenomeno fisiologico del "glass arm", letteralmente: "braccio di vetro"), l’inventore Horace G. Martin brevettò, nel 1902, basandosi sul circuito del campanello elettrico, un nuovo tipo di tasto telegrafico orizzontale: il tasto semiautomatico elettromeccanico Autoplex (
http://www.chss.montclair.edu/~pererat/g_aut2.jpg ). Questo, però, aveva la pecca di necessitare di batterie ed elettromagneti. Occorreva quindi un tasto che fosse più economico, nonché semplice e pratico da costruire, trasportare e gestire di fino nelle regolazioni. Così, lo stesso Martin brevettò, nel 1904, un tasto semiautomatico interamente meccanico che, ad opera di J.E. Albright, costituì, a partire dal 1915, l'idea di base per la creazione di tutti i tasti semiautomatici della Vibroplex.
Il sito
http://www.vibroplex.com/ non presenta soltanto la corrente e pregiata produzione dalla Vibroplex, ma anche un’area che funge da museo virtuale dei pezzi storici, un prezioso strumento tabellare di datazione dei tasti in base al numero di serie impresso accanto al loro marchio di fabbrica, e tante altre curiosità e servizi forniti ai clienti di questa casa produttrice.
Nella foto un bellissimo Original Bug del 1954, che ho trovato in stato di superba conservazione insieme al proprio originale cofanetto da viaggio. Riguardo ad esso, però, mi resta soltanto un dubbio: nel '54, gli Original Bug montavono forse i pesi dei Blue Racer? Ai più esperti l'ardua risposta.

martedì 2 giugno 2009

(Post n. 19) Turista per caso

Per leggere una recensione e vedere la locandina:

Dal mio punto di vista... A volte non si sa perché ci si affeziona a certe storie, anche se il tema trattato è, nonostante il lieto fine, drammaticamente sgradevole. Probabilmente è il desiderio di mettere logica dove essa pare che non vi sia, a creare questo vincolo. L’elaborazione mentale dei fatti narrati può essere anche piuttosto lunga e laboriosa ma indubbiamente la sfida si vince sempre utilizzando l’incontrastabile arma dell’onestà intellettuale: i personaggi non possono usarla appieno perché sono calati nella realtà, anche se fittizia, e quindi risultano spesso frastornati dalle proprie ancestrali paure e dal tempo che urge, fino al punto di avere a disposizione un libero arbitrio a funzionalità piuttosto limitata. Lo spettatore, invece, può, dall’alto della propria agiata situazione, astrarre maggiormente e quindi vedere un più elevato numero di possibili alternative. E’ questa un’operazione consigliabile per conferire a qualsiasi “fiaba” l’utilità che essa merita e per capirne la reale caratura.
Nel caso di specie, a mio modesto parere, penso che questa misura di valore sia altissima: la lotta per la felicità non è altro che la trasposizione concettuale, nella società del benessere materiale, della lotta per la sopravvivenza sostenuta da tutte le creature nella natura selvaggia. Per chi è sconfitto resta infatti lo spettro del male oscuro della depressione che equivale alla perdita della vita attraverso la perdita della vitalità. Il tema è serissimo ma solo due donne sembra che se ne accorgano subito, in questa storia: Muriel e Rose. Sono loro, modestissime e mansuete persone qualunque, le battagliere eroine a sorpresa imprimenti una svolta generalmente positiva ed incoraggiante a tutta la vicenda.
Questa, al di là del tema emergente come principale, mi pare l’essenza della storia: se qualcuno avesse scorto altro, ben felice di ampliare il mio angolo visuale.